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“Va’, pensiero, sull’ali dorate/ Va, ti posa sui clivi, sui colli,/ Ove olezzano tepide e molli/ L’aure dolci del suolo natal!/ Del Giordano le rive saluta,/ Di Sionne le torri atterrate…/ Oh mia patria si bella e perduta!/ O membranza sì cara e fatal!/ Arpa d’or dei fatidici vati,/ Perché muta dal salice pendi?/ Le memorie nel petto raccendi,/ Ci favella del tempo che fu! […] ”.

C’è qualcosa in questi giorni muti e rotti dal grido di sirene spiegate che è come una carezza sul capo chino. Ed è il nome Italia: dalle Alpi alle isole, nelle città, nelle piazze, per le strade, sui sagrati delle chiese, sulle facciate dei teatri chiusi, nei luoghi del dolore e in quelli della speranza, lungo le coste, nei campi, sulle colline…

È un nome pronunciato con la mano sul cuore, aggrappati alla consapevolezza di ciò che siamo, di ciò che siamo stati e di ciò che saremo. Nell’attesa di un altro Risorgimento, nel nuovo cerchiamo il vecchio, in quel che è cerchiamo ciò che è stato, per credere che ancora sarà.

E allora appare magnifica, consolatoria e vibrante come non mai l’Opera lirica: gioiello italiano nel mondo. Anche per chi non è un melomane e il Melodramma lo frequenta poco o per niente, in questi giorni sospesi se ci si mette all’ascolto può accadere che il sipario della memoria si alzi su alcune arie o cori che il nome Italia anche quando non è pronunciato (come nel caso del “Va’ pensiero”) lo elevano al cielo come il più prezioso dei fiori. Accade ad esempio guardando un frame del video di T. Romano/Ansa su Corriere.it postato nei giorni scorsi: il Teatro Regio di Torino chiuso trasmette “Va’ Pensiero” in una piazza Castello monumentale e deserta.

È un attimo e di tanti palpiti si riempe lo spazio scenico dentro una quinta teatrale surreale e metafisica quasi fosse una piazza di Giorgio De Chirico.

Così sullo spartito del Melodramma italiano possiamo provare a far riaffiorare parole che ci ricongiungono all’Italia e ai suoi Padri nobili. A Giuseppe Verdi, per dire! Nel suo “Attila”  ad esempio, il generale romano Ezio, nel duetto con il re degli Unni, canta: “Avrai tu l’universo, resti l’Italia a me” . Si racconta che, durante la rappresentazione alla  Fenice di Venezia il 17 marzo 1846, a quella frase il pubblico rispose:  “A noi! L’Italia a noi!”. Si era a due passi dai moti rivoluzionari che nel ’48 infiammarono tutta l’Europa e che vengono anche indicati come Primavera dei popoli.

Ma torniamo al Nabucco e al “Va’ pensiero”: la sua potenza evocativa, la bellezza del testo e della partitura, il magnetismo dell’uno e dell’altro insieme in un mirabile equilibro sono tali che non di rado il coro verdiano è stato contrapposto all’Inno di Mameli che rappresenta il nostro Paese nel mondo.

A parte le contrapposizioni (talvolta accompagnate da discussioni sterili), quando ascolti il “Va’ pensiero” quel brivido di cui si diceva lo senti sulla pelle e alzi gli occhi al cielo come sembra fare l’ombra di fiamma che tremula si eleva verso l’infinito.

Ombra di fiamma tra volute di di speranza, già!

“[…] colla esperienza dell’ombra che fanno essi fochi dinanti al Sole, abbiam veduto e trovato il vero moto che fa l’aria penetrata dalla fiamma e così il fumo penetratore di essa aria […]”, scriveva Leonardo nel Codice Atlantico a proposito dei suoi studi sulla fiamma della candela e sull’ombra suggestiva che si può osservare utilizzando una sorgente di luce più forte della fiammella come può essere la luce del sole. L’ombra serpeggiante di una luce accesa che guadagna il cielo in una notte di stelle può essere anche un pensiero cantato che si alza verso il cielo come in “Nessun dorma”,  la celebre romanza per tenore della Turandot di Giacomo Puccini.

“ Nessun dorma! Nessun dorma!/ Tu pure, oh Principessa/ Nella tua fredda stanza/ Guardi le stelle che tremano /D’amore e di speranza/ […] ”.

Solo, nella notte di Pechino, Calaf “il principe ignoto” aspetta il sorgere del giorno, quando potrà finalmente conquistare il cuore di ghiaccio  di Turandot: “[…] Dilegua, o notte!/ Tramontate, stelle!/ All’alba vincerò![…] ”.


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