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Etnografia. più che provare a comprendere ciò che accade, l’interesse si è spostato verso un approccio letterario teso all’affermazione di sé

“Avevo compiuto diciotto anni da qualche mese la prima volta che ho varcato la soglia della facoltà di Sociologia, a Trento. Ricordo come fosse oggi: era uno dei primi giorni di novembre, subito dopo le festività, un freddo giorno come ne avrei poi vissuti tanti altri nella città che avevo scelto per frequentare l’Università. A convincermi definitivamente della scelta di Trento, che in quegli anni era al top degli studi sociologici italiani, era stato Davide, che avevo incontrato e conosciuto durante la tradizionale Fiera del Levante a Bari, in settembre. Davide aveva qualche anno più di me, stava quasi per finire il suo percorso a Trento e mi fece sciogliere l’ultimo dubbio che mi era rimasto: scelta sociologia, era meglio andare a Roma o a Trento? Alla fine di una lunghissima, piacevole chiacchierata con lui, tornai a casa con la decisione presa; fu così che Trento è diventata, per oltre trent’anni, la città nella quale ho vissuto e ho fatto alcune delle scelte più importanti della mia vita”.

Potrebbe cominciare così – per poi proseguire con il dettagliato racconto della mia vita trentina, studente, ricercatore, prof, arbitro di pallavolo, giornalista, direttore di una Tv, una nota prossimità con le vicende calcistiche della locale squadra e tante altre cose ancora – il racconto di un procedere negli anni che mi ha condotto, in seguito, a scegliere un’altra sede dove insegnare sociologia e metodologia della ricerca sociale, forse anche perché con il tempo è cambiato, in generale, quello che della sociologia si pensa in quanto scienza.
Un inizio in quel modo, discorsivo, narrativo, tutto in prima persona – e fondamentalmente autocentrato – si configura oggi (almeno, così pensa una parte dei ricercatori) come un vero e proprio percorso di ricerca: da quando la narrazione ha fatto ufficialmente il proprio ingresso nel novero degli strumenti conoscitivo/comunicativi, il terreno si è via via allargato, per incorporare anche un approccio che, mutuando quello etnografico così caro agli antropologi, è pian piano scivolato verso una etnografia autoriferita, un racconto dove ricercatore e soggetto di ricerca coincidono, e spesso questo porta ad una situazione da “tutto il resto è fuori”.

Il fascino della sociologia come scienza ha certamente subito, negli ultimi quarant’anni, qualche duro colpo. Nata con l’ambizione di essere una “fisica sociale”, avviata alla spasmodica ricerca di uniformità di approccio metodologico con i collaudati impianti sperimentali delle scienze tradizionali, la sociologia ha pian piano dovuto prendere atto che studiare i comportamenti collettivi delle persone è alquanto differente rispetto a quelli delle cose. Se analizzare funzionamento e comportamento delle cose può essere molto complicato dal punto di vista tecnico – come ci insegnano scienze come la fisica, l’astronomia, l’ingegneria, la biologia – analizzare i comportamenti umani è invece certamente complesso; perché, a differenza delle cose, inanimate, noi siamo invece dotati di intelletto, coscienza, cultura e ragionamento, tutte cose che cambiano decisamente il quadro entro il quale muoversi per comprendere e spiegare.

Come ha reagito la sociologia alla presa d’atto che le cose erano (un po’) diverse (e, sia chiaro, è un processo ancora in corso, perché i nostalgici esistono dappertutto)? Allargando, pian piano, il novero degli strumenti utilizzati nella ricerca sociale, incorporando, inglobando, ibridandosi con molte altre discipline delle cosiddette scienze dell’uomo, al fine di ritrovare sé stessa, e di essere in grado di fornire quel contributo alla comprensione e alla spiegazione dei fenomeni sociali complessi cui è naturalmente chiamata.

È stata una scelta saggia, fruttuosa? Certamente si, perché in questo modo è uscita da quel collo di bottiglia nel quale sembrava irrimediabilmente avviata a finire. Però la domanda nasce spontanea: appurato che non possa esistere un unico metodo scientifico, perché non esisterà mai una cosiddetta teoria del tutto (come invece sogna qualche fisico), fin dove ci si può spingere nell’allargamento del terreno dei metodi di ricerca perché gli stessi possano essere considerati tali (e quindi utili innanzitutto, ma soprattutto accettati dalla gran parte degli scienziati sociali, che ne certificano così in qualche modo la correttezza e la possibilità di farvi ricorso)? Perché il rischio, va detto, è quello di rispondere al tentativo di spiegare tutto con un approccio deterministico causa/effetto, buono per le cose ma spesso non altrettanto efficace con le persone, nel quale il ricercatore teoricamente non dovrebbe esistere in quanto all’influenza esercitata sull’esperimento (ma non è mai così), con un approccio che invece mette il ricercatore esattamente al centro, in una posizione in cui soggetto e oggetto di ricerca coincidono, provando a capire sé stessi invece di provare a capire il come e il perché delle cose del mondo sociale. Con un ulteriore rischio.

Alla domanda “Può essere considerato un approccio di ricerca sociale valido un metodo siffatto?”, se ne aggiunge immediatamente un’altra: “Posto che sia accettabile come metodo, stiamo parlando di sociologia, o è altro?”. Entrambe le domande hanno, naturalmente, una logica strictu sensu, se vogliamo rimanere nell’ambito della scienza sociale, perché stiamo parlando delle basi, cioè delle cose che la comunità scientifica accetta legittimandone, di conseguenza, un utilizzo efficace dal punto di vista della comprensione e della conoscenza. Tanto che uno degli errori più frequenti commessi da chi pensa che l’autoetnografia possa essere equiparata ad un metodo di ricerca scientifico è quello di partire da dove, generalmente, partono tutti: cioè con le ipotesi di ricerca. Ma porre ipotesi è indispensabile quando si abbia poi la possibilità di verificarle o meno: cosa non prevista dal percorso autoetnografico, che in questa maniera compie anche l’errore di un tentativo di legittimarsi in una realtà che, di fatto, rigetta.

A queste domande logiche, da metodologo, potrei aggiungerne una ulteriore: potrebbe esserci una relazione fra l’adozione di un approccio di ricerca autoetnografico, autocentrato, con il progressivo scivolamento del sistema di valori verso un individualismo sfrenato, che porta a considerare sempre più ego non in relazione ad altro? Che concepisce la società come una semplice sommatoria di singoli senza tener conto del “di più” che un approccio di quadro complesso, comunitario, non autoriferito, potrebbe naturalmente produrre, a beneficio di tutti?

Ecco, torniamo all’incipit di questo contributo, quello in cui racconto la mia vita a partire dall’incontro – per me fondamentale – con la sociologia, un incontro che di fatto ha poi plasmato il mio futuro. Potrei proseguire a lungo nella narrazione, spingermi a rivivere momenti non facili – e chi non ne ha avuti nel corso della propria vita? – raccontare come mi sono sentito di fronte a palesi ingiustizie alle quali ho assistito – e chi non ha assistito a palesi ingiustizie? – potrei anche dovermi a volte fermare nella narrazione perché alcuni episodi dolorosi magari non sono ancora metabolizzati del tutto, potrei… Potrei fare molte cose, ma alla fine la domanda è una sola: ho fatto ricerca sociale? È sociologia, quella?

Ecco, sono convinto che la strada scelta da qualcuno, quella di considerare l’autoetnografia, analitica o evocativa che sia, un approccio scientifico (sia pure in una accezione più ampia di quella tradizionale) che apporta conoscenza e comprensione dei fatti sociali, sia perlomeno debole, se non fallace. Bene che vada, può essere un approccio auto-terapeutico, certamente utile in qualche caso, soprattutto se aiuta qualcuno a comprendere meglio qualche episodio della vita che ha vissuto. E a superarlo, auspicabilmente, soprattutto se è stato doloroso. Insomma, uno strumento di (auto) cura della persona, singola, unica, irripetibile. Con un ben inciso marchio di irripetibilità, se è vero come è vero che siamo tutti diversi. Ma che c’entra questo con la sociologia? Nulla.

L’impressione, insomma, è che alla debolezza di chi avrebbe voluto spiegare, con un approccio macro, l’azione sociale esclusivamente attraverso modelli a totale fondamento statistico, si tenti ora di contrapporre un approccio totalmente opposto, in cui la narrazione di sé è talmente micro da risultare, inevitabilmente, autoriferita, da non andare al di là del nostro stesso corpo.
Un approccio sbagliato come risposta ad un approccio sbagliato. Il sospetto è che più che provare a comprendere le cose che accadono attorno a noi, nelle relazioni che costruiamo, nell’interazione con le norme e i sistemi di valori (tutte cose che è possibile fare con un sano ed equilibrato mix fra qualitativo e quantitativo), l’interesse sia spostato verso un approccio che è perlopiù letterario, narrativo, a-scientifico, magari pregevole dal punto di vista estetico, ma votato esclusivamente all’affermazione di sé stessi, all’autocelebrazione. Perfettamente in linea con quella che è diventata la società dell’individualismo.


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