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Se nella ricerca scientifica in paleontologia ha fatto storia il tentativo di truffa noto come “L’uomo di Piltdown”, ci sono moltissimi altri esempi di ricercatori che hanno provato a costruire la propria visibilità e la carriera a partire da episodi assolutamente poco chiari. Per lo più si tratta di situazioni abbastanza rare, perché il controllo della comunità scientifica sulle nuove scoperte è molto rigido; un controllo che fa parte esso stesso del processo della scoperta.

Eppure… eppure a volte le cose sfuggono di mano, e accadono. Succedono non soltanto se pensiamo a un’epoca a noi molto lontana, quando la digitalizzazione non era neanche nei pensieri più arditi e la difficoltà di scoprire eventuali errori volutamente causati (o vere e proprie ricerche inventate) era abbastanza grande. Accadono anche oggi, quando i controlli incrociati utilizzando il web rendono le cose molto più semplici, trasparenti, verificabili. Prendiamo i fisici, per esempio.

Qualcuno in passato si è spinto addirittura ad affermare a proposito di questa disciplina scientifica che sarebbe l’unica vera Scienza, con la S maiuscola; che tutte le altre, insomma, sarebbero una sorta di tentativo d’imitazione, una sottospecie. Eppure anche i fisici, a volte, provano a barare e non si tratta di casi isolati, anzi. Negli anni ’80 del secolo scorso, gli Stati Uniti d’America erano già il centro del mondo per quanto concerne la ricerca scientifica: fecero quindi molto clamore alcuni scandali che agitarono la ricerca biomedica in alcune fra le più prestigiose università, che si trovarono coinvolte loro malgrado in un giro di tentativi di truffe alquanto gravi. Per dirimere le questioni il Congresso istituì una apposita commissione di inchiesta, che fu affidata all’allora giovane deputato Al Gore. Le società scientifiche difesero a spada tratta il mondo della ricerca.

L’intervento dell’allora Presidente dell’Accademia Nazionale delle Scienze Philip Handler, da questo punto di vista, fu molto duro: in pratica fu data colpa all’informazione e al fatto che alcuni avvenimenti era stati gonfiati ad arte, perché a suo dire le frodi scientifiche non rappresentavano un problema per il semplice fatto che erano impossibili. E che solo un pazzo ci avrebbe potuto pensare. Insomma, una difesa dei principi etici di scienza e scienziati proclamata a voce alta.

Nel medesimo periodo, sulla stessa lunghezza d’onda era anche l’APS, la Società Americana di Fisica, che sottolineava la fattispecie di non aver avuto bisogno neanche di un codice etico vista l’assoluta serietà dei ricercatori. Tutti scienziati seri e uomini probi, in qualche modo però – come vedremo – evidentemente a tempo determinato. All’inizio del nuovo millennio, infatti, qualche episodio suggerisce all’APS di dotarsi, appunto, di un Codice Etico, al fine di poter agire contro chi avesse provato a barare nella ricerca. Cosa che difatti avviene. Perché? Un primo episodio aveva riguardato la prestigiosa Università di Berkley, e in particolare un gruppo di fisici del Lawrence Livermore National Laboratory, un centro d’eccellenza soprattutto nel campo dello studio e nella individuazione di nuovi elementi transuranici.

Siamo nel 2002, e appunto da quella sede fu annunciata la scoperta di due nuovi elementi, identificati rispettivamente con numero atomico 116 e 118. L’annuncio avvenne con grande enfasi per mezzo di una pubblicazione sul prestigioso Physical Review Letters. Peccato che i dati in questione – come appurò una commissione successivamente appositamente costituita – erano stati abilmente manipolati. Erano falsi, insomma. A percorso di verifica concluso, la rivista ritirò l’articolo e l’Università licenziò in tronco Victor Ninov, che faceva parte del gruppo di ricerca.

La vicenda ebbe una coda anche in Germania: un gruppo di ricerca sugli ioni pesanti dell’Università di Darmstadt trovò dati manipolati anche in alcuni esperimenti eseguiti nei laboratori di quella sede accademica, esattamente negli anni precedenti, quando lo stesso Victor Ninov aveva fatto parte del gruppo di ricerca in quella Università. Un habitué, insomma.
In quell’Annus horribilis che si rivelò alla fine il 2002 per la credibilità dei principi etici di alcuni ricercatori in Fisica, venne alla luce successivamente un nuovo problema, che contribuì a scrivere un nuovo capitolo del grande libro delle truffe nella scienza.

La vicenda ha inizio qualche anno prima: nel 1997 Jan Hendrik Schön, ricercatore nel campo della fisica allo stato solido e delle nanotecnologie, conclude il suo percorso di dottorato presso l’Università di Costanza. È un promettente studioso, e il professor Bertram Battlog, fisico all’Istituto federale di Zurigo e direttore del Material Physics Research Department, che fa parte dei laboratori Bell di Murray nel New Jersey, un luogo dal passato glorioso a livello di premi Nobel conquistati, lo vuole a lavorare nel suo team negli Stati Uniti. Battlogg è al tempo uno dei fisici più esperti al mondo nel campo della superconduttività, e si tratta quindi di un’offerta irrinunciabile.

Cominciano così l’avventura e la carriera al Lucent Technologies’ di Jan Hendrik Schön, che pare davvero essere uno dei giovani studiosi più promettenti al mondo. Il giovane fisico cominciò a pubblicare un numero incredibile di contributi su riviste di primissimo piano quali Science e Nature, annunciando risultati strabilianti e importantissimi: fra le scoperte annunciate, quella che forse fece più clamore riguardava la realizzazione di un transistor molecolare: il fisico rivelò di aver prodotto un transistor di dimensioni molecolari, utilizzando un sottile strato di composto organico che, attraverso un processo di auto-organizzazione, aveva la caratteristica di agire come un transistor controllato da campi elettrici esterni.

Una scoperta certamente rivoluzionaria, che avrebbe spostato l’intera industria elettronica dal silicio ai materiali organici. A soli 31 anni, insomma, Schön aveva già nel suo curriculum oltre un centinaio di pubblicazioni nel campo della fisica dei semiconduttori organici e delle nanoscienze, articoli peraltro co-firmati con altri illustri ricercatori di tutto il mondo: se ne contavano 45 solo nel 2001, con una massiccia presenza di articoli su Science, nove, e su Nature, sette. Anni di grandi successi quelli a cavallo del cambio di millennio per Schön, che si vede assegnare anche molti premi internazionali: fra gli altri, il Premio Otto-Klung-Weberbank per la fisica e il Premio Braunschweig nel 2001 e il Premio Outstanding Young Investigator nel 2002.

Si prospetta insomma un futuro radioso per questo giovane fisico, capace di produrre il primo laser basato su semiconduttori organici, il primo transistor emettitore di luce e in grado di abbattere uno dopo l’altro numerosi record relativi alla superconduttività. La sua brillante carriera fa si che il prestigioso Max Planck Institut, in Germania, lo designi come futuro presidente a coronamento di una visibilità scientifica internazionale impressionante, mentre molti sono quelli che pensano già a un premio Nobel presto alla portata del giovane studioso.

Non era un’opinione che riguardava proprio tutti i colleghi, comunque: anzi, già da tempo i suoi studi erano oggetto di forti dubbi in particolare da parte della professoressa Lydia Sohn prima e poi del professor Paul McEuen dell’Univerità di Cornell, i quali avevano eccepito sulla consistenza di alcuni dei risultati di Schön. A loro si aggiunsero nel tempo altri studiosi, dubbiosi rispetto alla circostanza che molti dati in differenti esperimenti descritti fossero identici; fu la rivista Nature, allertata, la prima a contattare i Bell Lab e nel maggio del 2002 fu quindi affidata un’indagine a una commissione esterna, diretta dal professor Malcom Beasley dell’Università di Stanford.

L’indagine portò a risultati impietosi: in almeno 16 articoli, che coinvolgevano peraltro anche altri 20 co-autori, c’erano misure implausibili e immagini identiche, pur se con didascalie diverse. Alla richiesta della commissione di avere accesso ai dati originali, Schön rispose di non aver tenuto nessun archivio né un quaderno di laboratorio. Per di più, tutti i suoi campioni sperimentali risultarono danneggiati e inutilizzabili, rendendo quindi impossibile una ripetizione degli esperimenti. Venne a galla, insomma, una verità sconcertante: nei fatti, la totalità dei rivoluzionari dispositivi descritti non era mai esistita. Non appena conclusa l’indagine, nel settembre dello stesso anno, Schön venne allontanato dai laboratori Bell di Murray Hill: fu ritenuto unico responsabile dei tentativi di truffa scientifica, anche se un richiamo per comportamenti etici poco trasparenti venne esteso a tutti gli altro co-autori.

Nel 2004 l’Università di Costanza revocò il titolo di dottore di ricerca a Schön: nonostante il ricorso, il Senato accademico confermò la decisione in maniera definitiva nel 2008, giustificando l’annullamento con il grave danno d’immagine subito dalle vicende dei Bell Lab, scrivendo in questo modo definitivamente la parola fine su un futuro scientifico importantissimo per lo studioso. L’intera vicenda ha avuto anche un risvolto letterario: in quegli anni frequentava i Bell Lab anche l’italiano Gianfranco D’Anna, autore nel 2010 di un romanzo dal titolo “Il Falsario”, ispirato proprio alla figura professionale del giovane e rampante fisico Jan Hendrik Schön.


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