Michol Consolazione
7 minuti per la letturaL’ultima volta che ho fatto la spesa – la volta precedente era stata quattordici giorni prima – ho incontrato sotto casa Veronica. L’ho incrociata mentre mi chiudevo il portone alle spalle, respirando nella mascherina e guardandomi in giro come se tutto fosse nuovo. Veronica è una vicina, ha poco più di quarant’anni e una diagnosi di schizofrenia: una puntura al mese per la terapia farmacologica, un paio di incontri a settimana con gli educatori, una famiglia che la ama profondamente. Fa sempre lunghe passeggiate attorno ai palazzi del nostro quartiere, conosce tutti e a tutti riserva un saluto gentile. Dal balcone, adesso, la vedo sempre meno. Mentre ci salutiamo con la mano e da lontano mi chiedo come sta vivendo Veronica, e come lei chiunque abbia a che fare con la malattia mentale, in questo tempo incerto e diverso.
Ha risposto a questa e ad altre domande, sopraggiunte dopo, la dottoressa Michol Consolazione. Lavora a Imperia, come Dirigente Medico Psichiatra presso il Centro di Salute Mentale della ASL 1 Imperiese, e presso il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’ospedale cittadino.
Viviamo mesi particolari, di cambiamenti profondi; è cambiata anche l’utenza dei servizi psichiatrici territoriali?
«Da psichiatra di un comune relativamente piccolo direi di no, i numeri sono rimasti pressoché invariati riguardo alle richieste di visite ambulatoriali. Tuttavia sono aumentati gli accessi al Pronto Soccorso per emergenze psichiatriche».
E la tipologia dei disturbi?
«Ho riscontrato maggiori difficoltà a far fronte a questa drammatica situazione nei pazienti affetti da patologie di tipo ansioso-depressivo. Inoltre siamo di fronte a un aumento dei tentativi di suicidio; la maggior parte degli invii per consulenza psichiatrica in emergenza sono legati ad azioni o propositi anticonservativi, suicidari. In misura minore si manifestano scompensi acuti, sia psicotici che maniacali, in pazienti affetti da disturbi bipolari. Si sta perdendo un equilibrio psichico interno, spesso faticosamente raggiunto con i nostri interventi terapeutici, soprattutto nei pazienti che hanno una lunga storia di malattia, e in quelli più gravi. Tuttavia c’è anche una maggiore attenzione, da parte dei pazienti stessi, a captare i campanelli d’allarme. Chiamano, cercano il contatto con noi terapeuti. Hanno la necessità di sentire che non sono soli».
In queste settimane, in molti fanno i conti con disturbi del sonno.
«Sì, sono tra i sintomi maggiormente presenti, ma dall’inizio della pandemia ad oggi, tra i miei pazienti il sonno sta tornando più regolare».
Stagionalità o accettazione della nuova condizione?
«È noto che alcune patologie psichiatriche seguono un andamento stagionale, ma credo che sia in corso un processo di elaborazione del vissuto attuale. Non accettazione del presente, credo che la parola giusta sia elaborazione».
Come è cambiato il suo lavoro in questo periodo?
«Con l’arrivo del Covid19 abbiamo dovuto cancellare visite già fissate e ridurre il più possibile gli accessi sia in ambulatorio che in ospedale. Questo ha portato a un potenziamento del nostro lavoro per prevenire e intercettare le crisi. Ci siamo attivati con visite domiciliari e telefonate più frequenti, e con la consegna della terapia a domicilio da parte degli infermieri. Abbiamo creato una rete di supporto e di monitoraggio clinico per evitare l’invio in ospedale».
I pazienti avvertono ancora la malattia e la cura psichiatrica come uno stigma, un marchio?
«Lo stigma c’è sempre, soprattutto nei pazienti più giovani; spesso infatti arrivano dallo psichiatra solo dopo essersi rivolti a psicologi, oppure a neurologi, senza trovare risposte adeguate e un reale miglioramento. Lo stigma della malattia mentale è un “problema” che sentono in prima persona i nuovi pazienti: una diagnosi psichiatrica è percepita come giudizio lapidario, squalificante. C’è tanta resistenza anche nell’accettazione delle terapie farmacologiche, che effettivamente possono incidere sul funzionamento globale della persona. Sottolineo però che io considero la terapia psicofarmacologica utile a ridurre i sintomi della malattia, poiché il nucleo centrale della cura deve basarsi su un lavoro profondo per capire le cause che hanno condotto alla patologia. È importante far comprendere a tutti i pazienti che la malattia mentale non è genetica né ereditaria. Come tutte le malattie rappresenta la rottura di un equilibrio, di uno status di sanità che per fattori di tipo ambientale, dopo la nascita può essere perduto. Se si guarda alla malattia mentale in questo modo, se si fa questo tipo di ricerca e di elaborazione, si combatte anche lo stigma ad essa legato».
Possiamo immaginare che l’impatto psichiatrico dell’emergenza sulla popolazione non sarà immediato? Che si tratterà di un crollo verticale a “tensione allentata”?
«Sì, è possibile, il problema è stato affrontato recentemente sul numero di aprile della rivista The Lancet Psychiatry, che ha pubblicato uno studio condotto da 42 esperti mondiali, presagendo un aumento del rischio di suicidio legato al COVID-19 nei prossimi mesi. Lo studio ha individuato alcuni fattori di rischio suicidario, psicologici, economici e sociali che bisognerebbe intercettare in un’ottica di prevenzione e contenimento dei casi. Anche per questo è necessario superare lo stigma della malattia mentale: il suicidio può essere agito in modo impulsivo oppure derivare da una ideazione distruttiva meditata per lungo tempo: in questo periodo sembrano prevalere i gesti impulsivi, legati a questa crisi contingente; per questo è importante riuscire a individuare i segnali e rispondere in maniera tempestiva ed adeguata».
Crede che il governo abbia prestato sufficiente attenzione alle esigenze dei pazienti psichiatrici?
«Non in tutti i casi. Tuttavia ho avuto la possibilità di autorizzare i miei pazienti più gravi, che mal tolleravano di dover restare chiusi in casa, a uscire durante la giornata da soli o con un familiare. Grazie a questo nessuno tra i miei pazienti ha avuto finora crisi così gravi da richiedere un ricovero».
Può accadere che, paradossalmente, alcuni pazienti si trovino più a proprio agio in questa nuova dimensione?
«Questo no, però ho notato che i pazienti più gravi, affetti da psicosi croniche o schizofrenia, che hanno un rapporto alterato con la realtà basato sull’anaffettività, non hanno mostrato gravi crisi. Essendo completamente anaffettivi rispondono con freddezza, creano un distacco totale con la realtà che li circonda. In questo modo si “proteggono” dall’angoscia e dalla paura. I pazienti con patologie affettive sono più emotivi, mantengono un rapporto con la realtà, anche se più sofferente e complesso, pertanto rischiano di angosciarsi e vanno maggiormente in crisi in questo momento. Tuttavia sta accadendo anche qualcosa di nuovo: alcuni pazienti, nel realizzare che il problema della pandemia da COVID-19 riguarda tutti, iniziano a sentirsi, forse per la prima volta, parte di una collettività. Sentono di vivere all’interno di una dimensione di socialità, anche nella malattia. Nell’essere anche loro, come noi, “parte di un tutto” forse stanno trovando una risposta affettiva, anche se minima, che può sostenerli, e aiutarli a sentirsi meno soli».
Uno degli aspetti più tragici di queste settimane è il mancato saluto ai propri defunti. Quanto sarà importante, un domani, poter “recuperare” questi addii?
«Chi ha perso una persona cara ha vissuto qualcosa non solo di doloroso ma di inaccettabile. Il defunto è letteralmente sparito agli occhi di chi lo amava e il problema della sparizione è, in psichiatria, molto complesso. Bisognerà fare un lungo lavoro di recupero dell’immagine interiore della persona perduta e degli affetti ad essa legati. Si ha a che fare con una sparizione che da fisica, concreta, può diventare psichica e determinare una lesione interna, un vuoto. Questi possono portare a una grave crisi di anaffettività. Solo affrontando questa anaffettività, con un lavoro psicoterapeutico rivolto alla dimensione inconscia, con l’interpretazione dei sogni, una morte così drammatica può essere elaborata nel tempo e la crisi, ad essa legata, risolta».
La vita di chi convive con una malattia mentale, la vita di Veronica e di troppi altri, è una storia fatta di conquiste quotidiane, di abitudini instaurate con fatica, di strenua lotta e di sentimenti contrastanti e taciuti. Sentirsi accettati nel dolore e nel disordine, vederne riconosciute presenza e portata, è la condizione essenziale per chiedere aiuto senza considerarsi guasti ma sofferenti.
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