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Erano stati chiamati “ospedali” perché erano stati istituiti con la funzione di “ospitare” e per secoli avevano mantenuto il loro nome.

Nel 1992, in piena Tangentopoli, un decreto legislativo li ha ribattezzati “aziende ospedaliere”. Doveva cambiare la priorità concettuale dei luoghi di cura: l’aspetto manageriale diventava prevalente; la funzione diventava secondaria, quasi fosse anche nella realtà un aggettivo. La gente doveva abituarsi all’idea che anche gli ospedali, in quanto aziende, potevano essere chiusi, dovevano essere chiusi, per questioni economiche.

A Roma sono stati chiusi il Regina Elena, il San Giacomo e il Forlanini.

Il Forlanini non era un ospedale qualunque.

Inaugurato nel 1934, era stato progettato e costruito per essere un polo di eccellenza, a livello mondiale per la cura della tubercolosi. I farmaci antitubercolari all’epoca non erano ancora stati scoperti, ma al Forlanini chi era affetto dal “mal sottile” veniva ricoverato e sanato con “aria buona”, luce solare, una dieta corretta e interventi di chirurgia d’avanguardia.

L’architettura dell’intero complesso era stata studiata in base alle necessità terapeutiche. Non a caso il Forlanini sorge in una posizione elevata e centrale della Capitale, immerso in un parco immenso, tra alberi ad alto fusto e piante esotiche. Gli edifici a forma di ferro di cavallo, esposti a sud-est e le camerate dai soffitti alti, collegate su piano da ampie balconate, garantivano ambienti ventilati e luminosi. Le dimensioni colossali dell’ospedale permettevano di separare ciò che era sano da ciò che era contaminato, e di metterli in comunicazione con le dovute precauzioni. I sotterranei, oltre alla zona servizi, erano destinati a stalle e dispense. I giardini coltivati come serre. Il Forlanini doveva essere autosufficiente, a livello alimentare, anche nell’eventualità di una guerra. A integrazione dell’attività del sanatorio, il complesso comprendeva anche un cinema-teatro da 800 posti a sedere, due chiese (una per gli uomini, una per le donne), una biblioteca, un museo anatomico e aule studio, nelle quali si tenevano lezioni a studenti, medici e infermieri.

Sorprende che un monumento del secolo scorso possa conservare in sé più modernità del presente. Grandi opere pubbliche oggi rimangono incompiute o, pur compiute, sorgono già consegnate al passato: non sono pensate per durare e non durano.

Il Forlanini è una struttura che farebbe gola a qualunque investitore privato.

Finì la Seconda guerra mondiale, fu debellata la tubercolosi, ma al Forlanini perdurò l’eccellenza, soprattutto nell’ambito in cui fin dall’inizio era specializzato: la chirurgia toracica. Non era l’ospedale di quartiere, dove si capita soltanto per vicinanza o competenza territoriale: arrivavano lì apposta da tutta Italia. Pur di farsi operare dal prof. Martelli, primario dal 1990 al 2013, i nobili facevano la degenza in camerata con gli altri, come gli altri, tra chi russava, chi bestemmiava dal dolore e chi offriva i biscotti che gli avevano portato i parenti dal paese. Non era un ospedale qualunque, era il più qualunque degli ospedali: doveva servire i cittadini, serviva i cittadini.

Nel 2006 il Consiglio Regionale, ratificando una delibera della Direzione Generale dell’azienda ospedaliera, annunciava che i costi di mantenimento non erano sostenibili: il Forlanini andava chiuso. Vicino c’erano due strutture – il San Camillo e l’azienda ospedaliera Spallanzani – che bastavano a coprire il fabbisogno. A nulla è servita una petizione contro la chiusura, consegnata al Campidoglio. Nel 2010 Martelli, da commissario, ha formulato e presentato un piano di recupero del Forlanini a costo zero. Nessun risultato.

A due interrogazioni parlamentari, ancora una volta, nessun riscontro.

In un palleggio di governanti e di partiti diversi la dismissione del Forlanini avanzava. Non era questione di politici di destra o di sinistra. Era questione di politica.

Il Forlanini non è più un ospedale: è un dormitorio per immigrati e barboni, un luogo di spaccio e di prostituzione. Dove ha regnato l’ordine persino durante la Seconda guerra mondiale, c’è ora un campo di battaglia: infiltrazioni, guano, materassi, birre scolate, schedari, medicinali buttati a terra tra provette, microscopi e siringhe. Via via che i reparti sono stati trasferiti sono spariti i computer, i condizionatori, il rame. Nel 2014 una prostituta romena per scappare da un branco di connazionali si è lanciata dalla finestra del secondo piano e nel 2016 in un padiglione dismesso è stato trovato il cadavere di una minorenne tossicodipendente.

Già il Regina Elena e il San Giacomo, dopo essere stati chiusi, erano stati occupati. Perché la chiusura del Forlanini avrebbe dovuto avere risvolti differenti?

Viene da chiedersi: esisteva la possibilità di far quadrare il bilancio di questi ospedali senza perderne il valore? Chiuderli che benefici ha portato? A chi? Quanti soldi sono stati risparmiati e quanti soldi dovranno o dovrebbero essere spesi per bonificarli? Che destinazione d’uso avranno in futuro? Dal 2016 il Forlanini è in vendita, o meglio, in svendita. Ci si augura che un giorno non si arrivi a sostenere che svenderlo conviene piuttosto che tenerlo così ridotto o metterci mano per riattivarlo.

Oggi, considerata l’emergenza dovuta al coronavirus e la necessità di avere altri posti di terapia intensiva, con una petizione che ha superato le 83.000 firme viene chiesto di riaprire in fretta alcuni reparti del Forlanini, anziché procedere alla realizzazione ex novo di strutture da campo. La sindaca Raggi, con coraggio e coscienza ha chiesto alla Regione di riattivare il Forlanini quanto prima.
Ci si augura che anche la Regione Lazio dimostri altrettanto coraggio, altrettanta coscienza e altrettanta urgenza.

Ripristinare la vocazione sanitaria del Forlanini restituirebbe alla città un sentimento di fiducia nelle istituzioni. Non ci si può affidare soltanto alla fortuna, alla raccomandazione, alla disponibilità economica o a una polizza assicurativa. Deve tornare a essere un diritto di tutti essere curati e assistiti in strutture dignitose e, perché no?, belle.

Anche la bellezza ha un ruolo nella malattia. Nel tentativo di addolcire il dolore si cerca con lo sguardo un senso di pace in ciò che è attorno: trovandolo, si può guarire più in fretta; trovandolo, si può morire meglio. Diverso è guarire o morire come macchine inceppate o dismesse, stipate e sballottate in fabbriche sanitarie.

Saranno pure, a livello giuridico, “aziende ospedaliere”, ma i cittadini continuano a chiamarle “ospedali”.

La manipolazione politica delle parole può stravolgere il modo in cui la gente ascolta la realtà, ma non il modo in cui la nomina. Ci si fa l’orecchio ma non la bocca.


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