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I sociologi e la guerra. Un esercito di studiosi ha analizzato il fenomeno, partendo dalle cause psicologiche e dagli interessi economici fino a osservare le conseguenze sulle popolazioni e il modo di come i conflitti vengono raccontati e manipolati


In tempi turbolenti dal punto di vista dei conflitti che, purtroppo, a scadenza regolare vedono fronteggiarsi paesi, nazioni, religione e culture diverse l’una contro le altre armate, val la pena di ricordare che anche la sociologia ha fornito un importante contributo all’analisi del fenomeno della guerra, sia a livello teorico che empirico.
A livello teorico, la sociologia ha offerto una comprensione delle cause sociali e culturali della guerra, nonché una critica alle spiegazioni individualistiche o biologiche della aggressione umana, come accade per esempio con la teoria del conflitto di Max Weber, che considera la guerra conseguenza inevitabile delle competizioni economiche e politiche tra gruppi sociali. Ma si tratta solo di un esempio, perché le teorie sociologiche sulla guerra sono tante, esattamente come si conviene ad un fenomeno complesso di quella portata.

A livello empirico, invece, la sociologia ha fornito una vasta gamma di studi; fra gli altri, quelli sulle conseguenze sociali e psicologiche della guerra, nonché sui processi di pace e di ricostruzione sociale. Fra i numerosi esempi possibili, gli studi sui traumi e la salute mentale dei veterani di guerra hanno aiutato a sensibilizzare l’opinione pubblica e a supportare gli sforzi per fornire cure adeguate ai militari feriti. In aggiunta, la sociologia ha anche esplorato le rappresentazioni mediatiche dei conflitti, analizzando come la stampa e i media influenzino la percezione pubblica della guerra e la partecipazione alla stessa. Oltre al già ricordato Max Weber, sono stati molti i sociologi che hanno affrontato il tema della guerra da un punto di vista teorico.

I SOCIOLOGI E LA GUERRA, IL CADO DURKHEIM

È il caso per esempio di Durkheim, il quale ha sviluppato una teoria della divisione del lavoro sociale che ha identificato la guerra come una forma estrema di conflitto sociale, ma anche di Elias, che all’interno dei suoi studi sul processo di civiltà e ha sostenuto che la guerra è un prodotto della storia della civiltà europea e della sua espansione nel mondo.
Dal canto suo, Collins ha sviluppato una teoria della “interazione rituale” che ha identificato la guerra come una forma di conflitto in cui i gruppi si scontrano in modo simbolico e ritualizzato; e ancora, Bauman ha esplorato il rapporto tra la guerra e la modernità, sostenendo che la guerra è diventata una caratteristica permanente della società moderna, mentre Galtung ha sviluppato una teoria della pace che analizza la guerra come un fenomeno strutturale e ha identificato le cause profonde della guerra, come l’ingiustizia sociale e le disuguaglianze economiche.

Questi solo alcuni dei maggiori sociologi che hanno provato ad analizzare a fondo le cause dello scoppio di guerre.
La maggior parte degli studiosi, sia sociologi che appartenenti ad altre discipline, ritiene comunque che la guerra sia sempre un male e che dovrebbe essere evitata a tutti i costi, evidenziando come la stessa abbia come conseguenze dirette distruzione, sofferenza e morte, e che non esiste alcuna giustificazione morale per la stessa. È pensiero ricorrente che la guerra è spesso alimentata da interessi economici e politiche, piuttosto che da motivi moralmente giustificabili, e che la guerra può essere evitata attraverso una maggiore comprensione e cooperazione internazionale.

L’IDEA DELLA NECESSARIETÀ DELLA GUERRA

Anche se si tratta comunque di posizioni minoritarie nella comunità accademica, ci sono stati in ogni caso studiosi che hanno sostenuto che in alcune circostanze la guerra possa essere giustificata o addirittura necessaria. Si tratta in ogni caso di posizioni spesso controverse, a partire da Thomas Aquinas: il filosofo medievale ha sostenuto che la guerra può essere giustificata in certi casi, come la difesa della fede o della giustizia. Molto più analizzato e citato, il pensiero di un vero e proprio specialista della guerra come il teorico militare tedesco Carl von Clausewitz, il quale ritiene che la guerra sia un mezzo politico legittimo, che può essere giustificata in caso di interessi vitali dello Stato.
Il generale Carl Philipp Gottlieb von Clausewitz è stato il maggior generale dell’esercito prussiano, ed ha partecipato alle guerre napoleoniche. Viene ricordato soprattutto per essere l’autore di Vom Kriege, il trattato di strategia militare pubblicato in una prima versione parziale prima volta nel 1832 ma mai terminato a causa della precoce scomparsa dell’Autore.

I SOCIOLOGI E LA GUERRA: LA JUST WAR THEORY

Si tratta di una teoria generale denominata Just War Theory, che sostiene che la guerra può essere giustificata solo se soddisfa determinati criteri, come la giusta causa, la necessità e la proporzionalità. Ma si tratta, come ricordato, di posizioni minoritarie e controverse. La gran parte degli studiosi, per contro, fa riferimento ad una serie di teorie ben strutturate, come ad esempio la Teoria del conflitto, che fa riferimento alla guerra come risultato di conflitti sociali, economici e politici, con le relazioni internazionali influenzate dalle dinamiche di potere e interessi.

Vi è anche una prospettiva teorica che fa chiaro riferimento alla percezione di minaccia della sicurezza nazionale, concentrandosi su sicurezza nazionale e internazionale, legata al convincimento che la guerra sia il risultato di relazioni internazionali competitive e che le relazioni internazionali siano influenzate dalle dinamiche di potere e interessi. Di grande rilievo, inoltre, la teoria della costruzione sociale, che sostiene che la guerra sia costruita socialmente, e che le percezioni della guerra siano influenzate dalla cultura, dai media e da altri fattori sociali.

I SOCIOLOGI E LA GUERRA: UN FENOMENO COMPLESSO CHE NECESSITA DI UN APPROCCIO TRANSDISCIPLINARE

A grandi linee, le numerose teorie sociologiche che riguardano la guerra, cercano comunque di fornire le migliori analisi possibili ad un fenomeno davvero complesso, che necessita quindi inderogabilmente di un approccio transdisciplinare. Nel dettaglio, le teorie possono far parte di differenti prospettive teoriche, come per esempio la teoria del conflitto, prospettiva sostiene che la guerra è il risultato di conflitti sociali, economici e politici, e che le relazioni internazionali siano influenzate dalle dinamiche di potere e interessi.
Angolazione diversa per le teorie della sicurezza, che si concentra sulla sicurezza nazionale e internazionale, e sostiene che la guerra è spesso il risultato di una percezione di minaccia alla sicurezza nazionale. Ma ci sono anche teorie altre, come per esempio quelle sulla pace, che invece si concentra sulla pace e la prevenzione della guerra, sostenendo che la pace è possibile attraverso la cooperazione internazionale e la soluzione pacifica dei conflitti.

LA TEORIA DEI SISTEMI

Ultima, ma non meno importante, l’approccio della teoria dei sistemi. Questa prospettiva sostiene che la guerra è il risultato di sistemi internazionali interconnessi, e che la comprensione della guerra debba tener conto di queste interconnessioni.
La guerra è stata insomma considerata da innumerevoli punti di vista, che spesso hanno fornito risposte diverse al perché, nei fatti, il mondo sia sempre stato in guerra, da qualche parte. E se per i funzionalisti si tratta di un fenomeno che può rafforzare la coesione sociale e l’integrazione interna, alimentando un senso di unità e solidarietà contro un nemico comune e consolidando i legami interni di una società, nella teoria del conflitto, dal punto di vista marxista, la guerra è spesso vista come un risultato delle tensioni e dei conflitti tra classi sociali. Le guerre possono essere intese come espressioni delle lotte di classe, dove le élite utilizzano la guerra per mantenere il controllo economico e politico.

L’ANALISI DELLE ELITE MILITARI DI WRIGHT MILLS

Nello specifico, Wright Mills ha analizzato come le élite militari e industriali, che lui chiamava power élite, possano avere interessi comuni nella guerra, utilizzandola per consolidare il loro potere e influenza.
Uno dei libri sociologici più importanti e influenti sulla guerra è “Sociology of War and Peace” di  Stanislav Andreski, pubblicato nel 1968. In questo testo, Andreski affronta la guerra da una prospettiva sociologica, cercando di comprendere il ruolo delle strutture sociali, delle istituzioni politiche e delle dinamiche di potere nei conflitti armati. Il libro esamina il modo in cui le guerre influenzano le società e come, a loro volta, le società modellano le guerre, ponendo particolare enfasi sulle relazioni tra la guerra e la politica.

Le analisi più profonde rimangono, in ogni caso, quelle di Max Weber. A partire da quella relativa al monopolio della violenza legittima. Weber è famoso per la sua definizione di stato come un’entità che detiene il monopolio della violenza legittima all’interno di un determinato territorio. Questa idea implica che solo lo stato ha il diritto di usare la forza fisica per mantenere l’ordine e far rispettare le leggi, e questo monopolio è spesso stabilito e mantenuto attraverso la guerra e la violenza. Peraltro, Weber ha argomentato che la guerra è stata un fattore cruciale nella formazione degli stati moderni.

I SOCIOLOGI E LA GUERRA, L’ANALISI DEL MEDIOEVO E DELL’INIZIO DELL’EPOCA MODERNA

Durante il Medioevo e l’inizio dell’epoca moderna, la competizione militare tra diversi signori feudali e piccoli principati ha portato alla centralizzazione del potere. I governanti che riuscivano a creare eserciti efficienti e a finanziare guerre costose tendevano a consolidare il loro potere, creando strutture statali più forti e centralizzate. D’altra parte, la necessità di finanziare e organizzare la guerra ha portato allo sviluppo di sistemi fiscali e burocratici più sofisticati; in questo contesto Weber ha sottolineato come la raccolta delle imposte e la gestione delle risorse umane e materiali necessarie per la guerra abbiano contribuito alla crescita delle burocrazie statali.

Possiamo poi rilevare come, nel suo famoso lavoro “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, Weber non si concentra direttamente sulla guerra, ma le sue analisi dei cambiamenti economici e sociali che hanno accompagnato la riforma protestante includono discussioni sul ruolo della disciplina e dell’organizzazione, caratteristiche che sono rilevanti anche per l’efficacia militare e la gestione della guerra. Infine, uno dei capisaldi weberiani, quello sull’autorità. Weber ha distinto tra tre tipi di autorità, carismatica, tradizionale e razionale-legale. La guerra spesso gioca un ruolo nel passaggio da una forma di autorità all’altra. Per intenderci, i leader carismatici possono emergere in tempi di guerra, ma la necessità di amministrare e sostenere campagne militari su larga scala può favorire lo sviluppo di un’autorità più razionale-legale e burocratica.
Nella complessa analisi weberiana, insomma, fermo restando che va posto l’accento sul monopolio della violenza legittima da parte dello stato, la guerra non è solo un evento bellico ma un fenomeno sociale che ha profonde implicazioni per la formazione e lo sviluppo dello Stato, la centralizzazione del potere, e l’evoluzione delle strutture economiche e burocratiche.


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