Il presidente della Repubblica Mattarella ha appena terminato il suo intervento alla Festa dei Lavoratori
6 minuti per la letturaIL LAVORO. Quello che non c’è. Il lavoro del presente, il lavoro del futuro e il lavoro mangiato dal cambio di usi e costumi o dalla tecnologia che muove gli occupati come pedine sullo scacchiere del mercato. Cambia il mondo e cambiano i lavori. E cambia anche il modo di concepire il lavoro. Quel che non è mai cambiata è la matrice lessicale. Il termine deriva dal latino labor che vuol dire fatica, pena, sforzo, sofferenza. Anche il francese travail, lo spagnolo trabajo , il tedesco arbeit e l’inglese labour riconducono allo stesso significato.
“Il Signore disse ad Adamo: «Mangerai il pane col sudore del tuo volto»”, (Genesi 3:19) ricordano le Sacre Scritture. La fatica di un lavoro umile non risparmia neanche San Giuseppe che non è solamente il patrono dei papà – ricordato il 19 marzo – ma anche di falegnami, ebanisti e carpentieri e per questo festeggiato in campo liturgico e sociale anche il 1° maggio.
Fu Pio XII nel 1955 a volerlo ricordare come patrono di artigiani e operai nel giorno della festa dei lavoratori. Ma il lavoro è anche una “merce” di scambio. Non una merce qualsiasi certamente, comunque un dare e avere che a sua volta muta a seconda dei tempi, delle regole contrattuali, dei beni e dei servizi oggetto della produzione e non solo.
Il lavoro, i lavori fotografano la società nel tempo e nei luoghi in cui vengono svolti. Rappresentano un modo di osservare le diverse società, i loro mutamenti e le evoluzioni: sia quelle in avanti, che quelle in direzioni opposte. Sono veri e propri indicatori sociali, forniscono le chiavi di volta per aprire finestre sulle trasformazioni sociali e di costume. Il cambiamento del mondo passa (anche) attraverso le metamorfosi delle figure che abitano l’universo lavorativo. Il contadino della società agricola con le mani callose e tante bocche da sfamare che trascina l’aratro diventa l’operaio della prima e della seconda rivoluzione industriale. Le bocche da sfamare sono sempre tante e il più delle volte la paga risicata e le condizioni di lavoro pessime in quelle prime fabbriche quando non nelle miniere.
Muta il mondo, muta il lavoro e l’operaio diventa a sua volta l’iper specializzato nel tempo del digitale in grado di garantire prestazioni professionali anche a distanza, interfacciadosi da remoto con le macchine attraverso l’uso dei propri dispositivi. Dai campi alle fabbriche passa il primo spartiacque che cambia per sempre la Storia dell’umanità. Il secondo arriva con quella che a partire dai primi anni Settanta del ‘900, alcuni indicano come la Terza rivoluzione industriale dettata dall’evoluzione accelerata dei linguaggi dell’informatica, dell’elettronica e delle telecomunicazioni. E via via, col tempo anche l’operaio che va in fabbrica in tuta blu e l’impiegato che va in ufficio col colletto bianco finiranno col far di conto con l’era digitale. Il mondo reale del lavoro incontra e si scontra con una bolla virtuale e automatizzata dove nascono una miriade di nuove professioni e ne periscono altre.
Una trasformazione ad alta velocità, resa ancora più radicale dalla pandemia degli ultimi anni che è riuscita persino a scardinare i rituali legati al lavoro come la pausa pranzo, il caffè condiviso di inizio mattina. Per non dire del resto. Ed è così che l’avvento dell’industria 4.0 (e poi 5 e avanti enumerando) figlia della quarta rivoluzione industriale muta ancor di più funzioni, modi e ruoli lavorativi in un incessante processo di rincorsa della crescita economica. Il lavoro 4.0 fa il paio con nuovi modelli e soprattutto con una sorta di gara con i sofisticati marchingegni digitali.
Nell’era del lavoro frutto delle trasformazioni tecnologiche e digitali ci potrebbe toccare di festeggiare il primo maggio in piazza sì, ma insieme ai robot. Del resto, dai dati raccolti dal World Economic Forum e rilasciati nel report The Future of the Jobs, già qualche tempo fa si prevedeva entro il 2022 un 42% di lavoro gestito dalle macchine e un 58% dagli uomini. Previsioni a parte, la tendenza sembra essere destinata a crescere ulteriormente e a portare con sé nuovi modelli di lavoro. In questo scenario in continua evoluzione più di un interrogativo lo pone un fenomeno ancora tutto da indagare: le dimissioni volontarie.
La grande fuga dal lavoro in alcuni casi è un salto nel vuoto. Si lascia il lavoro anche quando non ci sono alternative. Cambiare lavoro, cambiare vita, darci un taglio e ricominciare sono scelte ardite se solo si guarda a qualche decennio fa e alla rincorsa del posto fisso e rassicurante. Forse che fluttuando nella precarietà di un mercato del lavoro instabile ci si è abituati al rischio di mettere tutto in discussione con cadenza ciclica? E quanto davvero ha inciso la “lezione” della pandemia nello spingere alla fuga dal lavoro? Dimettersi volontariamente si aggiunge alle categorie dei senza lavoro o in cerca di un nuovo lavoro, ma questa volta per scelta. A farlo sono giovani e meno giovani, istruiti e meno istruiti con titoli di studio diversificati. Ma perché? Cos’è che ha fatto invertire la rotta? C’entra forse quel concetto di felicità di cui esiste persino un vero e proprio indice di misura e il desiderio di trovare formule lavorative che meglio si conciliano con la qualità della vita?
Ancora una volta il lavoro e il modo di concepirlo diventano indicatori sociali che svelano cambiamenti epocali. Radar che intercettano i mutamenti che accompagnano la vita degli uomini nelle sue diverse declinazioni. Vale anche per il lavoro come strumento per battere strade che portano all’indipendenza e alla realizzazione di se stessi.
Lo sanno bene le donne che da sempre per il lavoro hanno combattuto battaglie, modificato le loro esistenze, conciliato ritmi con famiglia e figli, rivendicato diritti e ruoli. E cosa vorrà dire la parola lavoro negli anni a venire, al netto di quel “fardello” etimologico che si porta dietro nel suo stesso nome, ovvero: fatica? «E quando dico lavoro non penso ad una fatica, ad un supplizio che uno deve sopportare dalla mattina alla sera per rendersi indipendente dal punto di vista economico, ma ad una opportunità che Dio ci ha offerto per dare più senso alla nostra esistenza. Ricordatevi quello che vi dico: una cosa è fare’ il tabaccaio, e una cosa è essere tabaccaio», diceva Luciano De Crescenzo.
Allora forse la sfida è sempre quella: trovare un equilibrio tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, tra ciò che si ha e ciò che si vorrebbe avere. Perché è vero che il lavoro è sudore – vale anche per i lavori intellettuali e creativi: anche questi non esenti dalla fatica, anzi – ma a date condizioni è anche gioia soprattutto quando si ha la fortuna (e la possibilità) di fare il lavoro che si è scelto di fare e quando nel farlo si raggiungono gli obiettivi prefissati.
Gioia, appunto. “Il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva, non giovi a un nobile scopo”, (Adriano Olivetti).
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