X
<
>

Aldo Gianolio (foto Facebook)

Share
7 minuti per la lettura

“QUANDO non sai cos’è, allora è jazz”, la sintesi felice di Alessandro Baricco vale più di mille parole ma Aldo Gianolio, scrittore e critico musicale ha lo spartito giusto per non sottrarsi alla questione. Il Jazz è sempre una sorpresa. Un rompicapo. E se la domanda fosse non cosa è il jazz ma quale sarà il jazz del futuro?

La scomparsa di alcune leggende, il ritiro di altri grandi interpreti: Gianolio, il jazz ha un futuro?

«Certo che ha un futuro. E lo si constata ogni giorno per il moltiplicarsi delle proposte, attraverso i dischi, CD o LP (questi ultimi tornati in auge); o attraverso le registrazioni digitali che trovano la loro collocazione nel web; o attraverso le esibizioni dal vivo, in concerti e festival. E molte di queste proposte sono di alto livello artistico, sia che si collochino nell’ambito dell’avanguardia e della ricerca, sia che propongano jazz classicamente inteso, quello chiamato mainstream jazz, cioè “della corrente principale”; sia, ancora, che riguardino quello fortemente contaminato dalle musiche di tutto il mondo, contaminazioni che mai sono state numerose e invasive come nel jazz d’oggidì. Quindi il panorama, se è senz’altro peggiorato perché, come dice lei, è venuto meno l’apporto di alcuni grandissimi, non s’è però dissolto, anzi s’è allargato ed è più vivo che mai. Intanto, altri “grandi” hanno sostituito chi li ha preceduti (per esempio, il pianista Brad Mehldau si può considerare il nuovo Keith Jarrett); poi nel campo della ricerca di nuove soluzioni formali negli ultimi decenni si sono fatti valere musicisti innovativi come Henry Threadgill, Steve Coleman, Uri Caine, Vijay Ayer, Bill Frisell, Rob Mazurek e tanti altri. Il panorama s’è allargato anche “geograficamente”, perché ormai proposte interessanti provengono da tutto il mondo, compresa l’Italia, dove il jazz ha trovato un particolare modo di essere, con musicisti di alto rango».

L’irruzione dell’intelligenza artificiale…

«Rischiando di apparire vetusto, l’intelligenza artificiale applicata al jazz e all’arte in generale mi fa paura. Non si tratterebbe più, come è successo e succede per l’elettronica, l’informatica e tutto ciò che ne deriva (computer, sintetizzatori, campionatori) di applicazioni altamente tecnologiche che però rimangono sempre sotto il controllo dell’uomo. Con l’intelligenza artificiale si tende a sostituire l’uomo “creatore” con la macchina, e si rischia quindi di disumanizzare la musica».

Che rapporto c’è tra social e jazz?

«Attraverso i social c’è la possibilità di aver informazioni su tutto, sia dal punto di vista storico, se si volessero fare ricerche e comparazioni, sia da quello della stretta attualità, se si volesse stare aggiornati sulle più recenti novità. Ma i social, se non influiscono certo sulla produzione artistica e sulla sua qualità, hanno però determinato un differente ascolto e di conseguenza un diverso approccio alla musica da parte del fruitore, contribuendo al preoccupante cocooning, cioè l’imbozzolamento delle persone e delle loro coscienze nell’universo telematico domestico. Rispetto a quando si compravano gli LP, che li si soppesava, ammirava nella copertina, studiava nelle note di presentazione e li si metteva sul giradischi con fare sacerdotale, qualcosa s’è perso, come sempre succede quando si estromette il rito e la ritualità dalle nostre vite».

E tra giovani e jazz?

«Nonostante l’avvento dei social (youtube mi sembra sia nato nel 2005) il rapporto è rimasto il medesimo: i giovani interessati al jazz “puro” sono sempre una minoranza, oggi come quarant’anni fa, non parliamo poi del jazz d’avanguardia e sperimentale. I giovani sono invece aumentati per i vari tipi di fusion, dato che il jazz si mescola spesso con le musiche giovanili, non solo il rock, ma anche l’elettronica, l’ambient e l’hip hop, oltre che con le musiche folkloriche e addirittura con quella leggera».

Gianolio, ci dice una storia che racconta al meglio l’alfabeto umano del jazz?

«Eh, sì, sono tante. Molte anche di studiosi italiani. Non vorrei fare torto a nessuno e così nomino solo il vecchio “Jazz” di Arrigo Polillo, sempre di piacevole lettura; inoltre il fondamentale e più tecnico “Il Jazz” di Gunther Schuller in sei volumetti EDT. Però, come spesso succede, importanti sono le storie raccontate dagli stessi protagonisti, come il Louis Armstrong di “La mia vita a New Orleans”, il Chet Baker di “Come avessi le ali”, la Billie Holiday di “La signora canta il blues”, il Miles Davis di “Miles – L’autobiografia”, il Charles Mingus di “Peggio di un bastardo”, l’Herbie Hancock di “Possibilities”».

Cinque strumenti: tromba, sassofono, pianoforte, contrabbasso e batteria. Chi e perché?

«Se la domanda riguarda tutta la storia del jazz, non posso che andare indietro nel tempo. Tromba: senz’altro Louis Armstrong, che ha imposto l’improvvisazione individuale facendo decadere quella collettiva di New Orleans, oltre che essere il più grande in assoluto, anche come cantante. Sassofono: direi Charlie Parker, perché ha inventato un linguaggio che ha fatto passare il jazz dalla classicità alla modernità. Pianoforte: forse Art Tatum, per avere assorbito tutti gli stili pianistici tradizionali e classici trasformandoli con tecnica superlativa e il massimo dell’espressività. Contrabbasso: Charles Mingus, non solo eccelso strumentista, ma anche compositore, arrangiatore e leader di propri gruppi. Batteria: Max Roach, con cui si è passati alla modernità con un drumming personale e subito riconoscibile e che ha sviluppato l’assolo per batteria fino ad arrivare a vere e proprie composizioni».

Nel suo “Il trombonista innamorato” il personaggio di John Ferro: fantomatico critico italo-americano a cui ha affidato quaranta racconti dedicati alla vita di altrettanti jazzisti. Un modo bonario per prendere in giro la critica?

«Sì, principalmente un espediente letterario per costruire una cornice ai racconti, ma con John Ferro ho voluto anche prendere in giro il mondo della critica jazzistica, quindi anche me stesso, in modo, come dice lei, “bonario”. Pure nei racconti, ho fatto ogni tanto saltare fuori qualche figura di critico un po’ supponente (come supponente è John Ferro) con le loro invidie individuali e l’antagonismo fra differenti concezioni estetiche. Il tutto per voler velatamente dire che in ogni caso, nel bene e nel male, è più importante il musicista del critico».

Il jazz e le grandi voci femminili. Un debito non ancora onorato?

«Il debito è già stato onorato, se è vero che ogni jazzista cerca di imitare con il suo strumento il canto e le sue inflessioni, i portamenti, le sonorità “sporche” e le dinamiche, considerando che il “canto jazz” è stato appunto interpretato ai massimi livelli da voci femminili (da Bessie Smith a Billie Holiday, da Ella Fitzgerald a Sarah Vaughan, da Nina Simone a Cassandra Wilson). È per questo che il jazz non si disumanizza nemmeno nelle sperimentazioni più avanzate e tecniche. E poi le donne sono importanti anche come strumentiste, e non da oggi. In passato fiorivano le All-Girl Band, orchestre e orchestrine composte solo da donne, e nel tempo si sono messe in luce fior fior di artiste: la trombettista Valaida Snow, la pianista Mary Lou Williams, la compositrice Carla Bley. Proprio nell’ultimo numero di Down Beat, la più importante rivista di jazz del mondo, è stata designata miglior jazzista dell’anno Mary Halvorson, chitarrista e compositrice».

I quattro lavori discografici nella discoteca ideale di un jazzofilo: di quali non si può fare a meno?

«Come primo, imprescindibile, uno dei dischi antologici di Louis Armstrong che comprenda “Tight Like This” e “West End Blues”, incisioni del 1928. Poi “Bird & Diz” di Charlie Parker e Dizzy Gillespie, incisioni del 1949-1950. “Such Sweet Thunder”, uno dei tanti capolavori di Duke Ellington, incisione del 1956-1957. Infine “A Love Supreme” di John Coltrane, incisione del 1964. Però, sa, quattro sono davvero pochi, e sto male a pensare a tutti quelli che ho dovuto lasciare fuori».

Gianolio, infine, cos’è il jazz per lei?

«Per Gianolio il jazz è un linguaggio musicale basato su una specifica articolazione e altrettanto specifica pronuncia dove è importante (ma non obbligatoria) l’improvvisazione, che fa riferimento (direttamente o per rimbalzo) alla cultura degli afro-americani e degli americani in genere, ed è aperto a tutte le più disparate contaminazioni, colte o folkloriche. Ma cercare di spiegarlo serve a poco. Armstrong diceva: “E poi il jazz, se uno non lo capisce da solo, è inutile che glielo spieghi io”. L’ho messo come epigrafe al mio “Il trombonista innamorato”».


La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.
Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  
Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandiera dell’Italia riunita.
ABBONATI AL QUOTIDIANO DEL SUD CLICCANDO QUI.

Share

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

Share
Share
EDICOLA DIGITALE