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Astor Piazzolla

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Tutto inizia con uno sguardo in codice: la mirada. Uno sguardo per dire sì o no, per scegliersi senza parlare e abbracciarsi nel tempo vorticoso e breve di un tango in una milonga di Buenos Aires. Una sala da ballo con la pista levigata, i tavolini allineati lungo le pareti, l’odore di brillantina tra i capelli tirati sulla nuca dei tangueros. E sembra di vederlo in fondo alla milonga, un uomo perso tra volute di fumo e una sottile malinconia mentre comincia a suonare il suo bandoneón. Lo tiene fra le mani, come si fa con i sogni per non lasciarli scappare. Comprime e dilata il mantice, preme con le dita uno o più tasti…

Il viaggio nei suoni del tango ha inizio. Nostalgia, struggimento, visioni.

“Le gambe s’allacciano, gli sguardi si fondono, i corpi si amalgamano in un firulete e si lasciano incantare.  Dando l’impressione che il tango sia un grande abbraccio magico dal quale è difficile liberarsi.  Perché in esso c’è qualcosa di provocante, qualcosa di sensuale e, allo stesso tempo, di tremendamente emotivo. Il tango è un linguaggio in cui convivono tragedia, malinconia, ironia, amore, gelosia, ricordi[…] Il tango trasgredisce e lì sta la sua attrattiva.[…]”.

Prendendo a prestito le parole di Borges si può provare a raccontare Astor Piazzolla, detto anche “El Gato” per la sua abilità e il suo indiscutibile talento. L’argentino nato a Mar del Plata da genitori di origine italiana – che quest’anno, l’undici di marzo avrebbe compiuto cento anni – il tango lo ha amato, reinventato, consacrato, suonato, scritto e riscritto. Ne ha messo in discussione tradizione e ritmo tanto da far storcere il naso ai puristi ed essere “accusato” di essere el asesino del Tango (l’assassino del tango). Attirare su di sé i dardi delle critiche capita a chi è capace di mettere un punto e a capo, a chi è in grado di battere nuove strade.

Piazzolla non arretra. Del resto, il suo è un “delitto” perfetto, geniale. Ed ecco il Tango Nuevo o Nuevo Tango. Attraverso scorribande creative, sconfinamenti in altri territori sonori, collaborazioni preziose e varie – come quelle con il sassofonista Gerry Mulligan piuttosto che con Mina, per citarne solamente due – Astor resta nella Storia della musica del Novecento e oltre. In sostanza pratica la libertà di espressione compositiva, incontra il jazz (e non solo), scommette sulle dissonanze, sull’innesto di strumenti inconsueti per il tango e scrive quel vero e proprio manifesto musicale che è “Libertango”.

L’album è battezzato con il nome di uno dei pezzi più celebri, eseguiti e amati di Astor. Due sole parole: Libertad (libertà in lingua spagnola) e Tango. Il lavoro viene registrato a Milano nel maggio 1974. Nella compagine di musicisti che lo accompagnano, Piazzolla sceglie, per esempio, Tullio De Piscopo alla batteria. Astor e il suo Libertango fanno il giro del mondo.

Nelle case degli italiani quel tango seducente entrerà anche grazie a un noto spot pubblicitario, mentre Polansky lo vorrà per il suo “Frantic”.

Non solo Libertango, però. Secondo alcuni biografi il compositore firma circa 3.000 brani e ne registra circa 500, o forse più. Difficile scegliere in un repertorio così vasto e articolato ma un altro pezzo da Novanta – con “Oblivion” che Bellocchio sceglie nel 1984 per il suo film “Enrico IV” – è “Adiós Nonino”.

Si racconta che Astor lo scrisse in soli 45 minuti riprendendo un pezzo già composto, dopo aver ricevuto la notizia della morte del padre Vicente, detto Nonino. Dolore e morte. Musica e vita che abbraccia altra vita da ascoltare. Perché se è vero che “il tango è un pensiero triste che si balla” – è stato scritto attribuendo la frase a Enrique Santos Discepolo o a Borges – per “El Gato” bisognava prima di tutto ascoltare. Ascoltare il tango, suona strano.

Non con Piazzolla. Con lui è necessario fare silenzio per poi mettersi all’ascolto e non perdere nemmeno un pezzettino di quei suoi racconti in musica. Accade anche con “Maria de Buenos Aires”, nata “un giorno che Dio era ubriaco”: un tango operita su libretto del poeta Horacio Ferrer. Astor la compone dedicandola a Milva, la rossa. Con Piazzolla il tango si suona, si ascolta e ti resta nel cuore.

Accade anche se non lo hai mai ballato e non sei mai andata in una milonga a Buenos Aires. Perché “il tango si porta dentro la pelle”, diceva Astor. C’è da credergli come si può credere ai sogni che ti si parano davanti mentre ascolti “Oblivion” . Un pezzo così struggente che capita di immaginare gli italiani partire per l’ America: i bastimenti, le valige di cartone, i sorrisi che morivano sulle banchine dei porti. Solo i sogni rimanevano nell’aria come i fazzoletti bianchi dei saluti e la paura di essere dimenticati da un amore lasciato sulla terraferma.

Visioni e suggestioni sonore nel tempo di un tango. In fondo, anche quella di Astor somiglia a una di quelle storie con la valigia in mano!


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