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Il mosaico realizzato in Campania da artigiani della zona vesuviana e donato al New York City Council dal Comune di Napoli (AP photo/Bebeto Matthews)

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“Ma chi cazzo è a quest’ora?”… Sono le 6:00 del mattino a Roma, e Gianni Minà è decisamente sull’incazzato.

Il rompicoglioni dall’altra parte del telefono, da New York, sono io. E sto singhiozzando senza ritegno.

“Franco che succede?”, si preoccupa.

“Hanno appena assassinato John Lennon, Gianni”…

Per trenta secondi c’è il silenzio assoluto.

“Vado a lavarmi la faccia e a prepararmi un caffè così mi sveglio per bene, roba di cinque minuti”, mi dice, “ti richiamo subito, altrimenti spendi una fortuna in teleselezione”.

Guardo il telefono, aspetto. Dopo meno di cinque minuti Gianni ha carta e penna in mano. Gli faccio un riassunto dei fatti, scrive velocemente, vola con un taxi in Rai, racconta tutto in radio. Gianni i Beatles li ha conosciuti, tocca a lui.

Ero arrivato al Dakota Building tagliando per Central Park da Avenue of the Americas direzione nord ovest, 72th Street.

Di solito il Parco è un posto dove di notte non entri nemmeno con l’immaginazione.

Al calar del sole trovi solo spacciatori e tossici.

Ma quella notte era OK. Le FM di New York hanno interrotto i programmi mandando in onda solo le canzoni di John, Central Park West era intasata da migliaia di fans increduli.

Lacrime, candele, canzoni nell’aria. Polizia e transenne ovunque.

La sera stessa ho contattato Thom Panunzio, ingegnere del suono dei Record Plant Studios. Ce lo ha portato per la prima volta proprio Lennon, poi la sua carriera è decollata con Springsteen, Dylan, Rolling Stones, U2. Era uno degli ultimi che lo aveva visto ancora in vita. Ci incontrammo il giorno dopo.

“Il 5 dicembre sono nello Studio A del Record Plant con Willie Nile, stiamo registrando il suo nuovo LP per la Arista Records. John è al piano di sopra, mi chiama verso le 7:00, non ha più corde per la chitarra, tutte andate, gliele regala Willie. Suona su quelle corde Walking on a Tin Ice fino alle 4:30 del mattino, poi va a riposarsi”.

“John è felice, il suo primo LP dopo cinque anni di silenzio è al numero uno delle classifiche USA. I giornalisti musicali iniziano a dare credibilità a Yoko, per lui è importante. Vuole andare in un ristorante a festeggiare. Invita Robert Big Bob Manuel, la sua guardia del corpo, 1.80 per 140 chili. Bob ha l’influenza, torna a casa gli dice John, abbracciandolo, sarà per un’altra volta”.

Con Big Bob accanto, forse le cose sarebbero andate diversamente.

“Alle 11:00 di sera, i telefoni dello studio iniziano a squillare, contemporaneamente, ci dicono che hanno sparato a John. Siamo increduli, è appena uscito, radio e TV iniziano a dare la notizia. Poco prima di mezzanotte ci confermano che è deceduto al Roosevelt Hospital. Non ci resta che piangere”.

John Lennon ha sempre amato New York, che considerava la sua seconda casa. Un posto dove se sei una celebrità nessuno ti viene a rompere le palle. Si sentiva al sicuro. L’ho incontrato diverse volte nei piccoli club di Manhattan. Una volta con Bowie, l’altra con Andy Wharhol e poi in compagnia di Joey Ramone. Ma a questi preferiva stare con i ragazzi, davanti ad una birra, bevuta direttamente dalla bottiglia, a parlare del nulla, o del futuro. Cercava sempre di mantenere un basso profilo, senza pretendere che tutti comunque lo conoscessero. Se ti stringeva la mano, presentandosi, diceva il suo nome.

Suo figlio Julian in questo gli assomiglia molto. L’ho visto seduto a terra mentre mangiava una pizza nel cartone da asporto nel backstage di Bryan Adams al Madison Square Garden, al bar con Carlos Alomar o Peter Frampton a parlare di arte africana, durante il Glass Spider Tour del 1987.

Non abbiamo mai parlato del padre.

Nel 2012 ho organizzato le interviste con Paul McCartney e Yoko Ono per l’amico Fabio D’Alfonso di Porta a Porta, ad un anno esatto dal crollo delle Torri Gemelle a New York.

“Fabio, so che sei un fan, ma evita di parlare di John con Yoko, è una ferita ancora aperta”.

Non ho paura di morire, sono preparato alla morte perché non ci credo. Penso che sia solo scendere da un’auto per salire su un’altra”. (John Lennon, 1969)


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