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Gli artisti che mia sorella Elisabetta ha proposto per la sua Milanesiana sono artisti che io ho seguito, nell’arte contemporanea, che è un territorio molto complesso, e ho esposto in diverse occasioni. In questo momento, mentre a Bormio si presenta Francesco Tricarico, presso la Banca popolare di Sondrio, c’è una mostra di Wainer Vaccari nel paese di cui sono sindaco, Sutri, a dimostrazione di una continua e quasi quarantennale attenzione per questo artista, come per Luca Crocicchi e, ovviamente, come per Adelchi-Riccardo Mantovani, attivo a Berlino, che è stato presentato a Bormio l’anno scorso, che ha compiuto ottant’anni ,e ho voluto celebrarlo nel castello di Ferrara, nella sua patria, essendo lui di Ro Ferrarese, che è il luogo dove hanno avuto casa i miei genitori e ora mia sorella ha la sua dimora e il suo ritiro.
Devo dire che Tricarico invece non è mio, è suo.
E quindi lei se ne assume la responsabilità, ha scritto un bel saggio, mentre io, non ho espresso nessun giudizio fino a ora. È stata coraggiosa come sempre, e mi ha sfidato: “Adesso te ne faccio vedere uno io”. Quindi è un segnale di autonomia – vorremmo dire che in questa autonomia lei ha superato me stesso? Non lo so.
Il filone dell’arte astratta, informale, che ha i suoi maestri in Jackson Pollock, in Willem de Kooning, certamente ha segnato una traccia importante, che non era provocazione ma era pittura dell’esistenza. Era esistenzialismo e tragedia, e dramma, rappresentate attraverso quelle forme.
E quando Tricarico scrive i versi che sono l’accompagnamento più funzionale, insieme al testo di mia sorella (diventata critico d’arte, per quanto il suo saggio è molto efficace), ci fa sapere : “dove finisce l’arte finisce la vita”. Si rappresenta, con ciò, un tema fondamentale di cui io sono compiutamente convinto, perché se io sono critico d’arte lo devo a un grande personaggio che è fu il
mio professore Francesco Arcangeli, che ci insegnava che arte e vita coincidono. Wiligelmo, Masaccio, Caravaggio, insomma i più grandi artisti che avete in mente non fanno delle opere che rappresentano qualcosa che è finzione. Non è una finzione, non è come scriveva Carpaccio “finxit”, non “pinxit”, ovvero che un quadro doveva rappresentare la realtà senza esserlo. No. La grande arte è vita. E’ esperienza diretta. E in questo Caravaggio e Jackson Pollock sono la stessa storia, Pasolini è la stessa storia, Leopardi è la stessa storia.
Quindi se è vero che arte e vita si sovrappongono, che l’opera d’arte assoluta è vita, vi dirò che la frase che ne è in qualche modo derivata, “dove finisce l’arte finisce la vita”, classifica Tricarico tra gli artisti che vogliono fermare sulle tele attimi del loro tempo, della loro impazienza, della loro pazienza, della loro controversia, rischiando.
Ora, in questa sua visione introspettiva, con quella pittura che è il suo diario, il suo pensiero, la sua vita, il suo tormento, vorrei dire (non vorrei che né a lui né a mia sorella fosse ignoto) che come precedente diretto (e non ovviamente Jackson Pollock o De Kooning che sarebbero troppo facili, come i maestri come Giotto, che sono maestri per tutti), potremmo evocare per arrivare a quello che lui va facendo in questi ritagli di vita, questi frammenti, queste pitture quasi “a metro”.
Ecco, io quando l’ho visto ho pensato soprattutto a un pittore che si chiamava Pinot Gallizio, che è un pittore poco conosciuto ma importante, nato con il secolo ad Alba, pittore molto complesso che è stato un pittore astratto, non come Guttuso. E raccontava qualcosa che era il suo tormento, specchiato in forme non dissimili da quelle di Tricarico, e per dimostrare che l’arte non poteva essere figlia o assoggettata al mercato, dipingeva chilometri di pittura che ritagliava quasi regalandole. […] La schiuma pittorica, così viva, così vibrante delle sue superfici, ha un intrico interiore psicologico quasi di interiora più che di interiorità, quasi di budella più che di pensieri turbati, di viscere invece che di psiche turbata, che ha mostrato nella sua pittura.
Quindi mi sembra da quello che io ho visto che in lui potesse rivelarsi una discendenza in qualche modo – non so se volontaria, non so se Tricarico abbia conosciuto Pinot Gallizio –Questa può essere la traccia di un solco entro cui lui sta che non è solo quello dell’arte astratta e informale ma è quello della necessità esistenziale di parlare della propria vita attraverso la propria opera.
E quei versi in cui lui si rivela sono in realtà un testo di poetica ,utile per capire quello che vedrete. “dove finisce l’arte finisce la vita”, non so se è stato già detto, “una sola regola alle opere: non deve esserci nessuna forma decodificabile allo sguardo. Tutto dev’essere in movimento, strati che si sovrappongono a strati, colori a colori, bianco su bianco su nero su colore per l’eternità. Che ci sia profondità.
La parola ferma, il colore e le linee ondulatorie, no. Che si muovano, che vivano le opere, la vita che non si vede, che non si tocca, che non si sente. Che sia riscatto dalla sofferenza e dal dolore, che sia gioia e vivo tormento, giustificazione e discorso antico e sapiente e non si curi delle omissioni” forse aveva pensato al tema di quest’anno della Milanesiana, “…di cui siamo tutti vittime: l’arte. In un’opera c’è un rettangolo che contiene un cerchio, l’eccezione che conferma la regola. Ripeto: dove finisce l’opera finisce la vita”. Come dire che per un artista dipingere è vivere e, ove finisse di dipingere, finirebbe di vivere, e che in quella pittura c’è la sua vita. È un manifesto importante.
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