Marco Benedetti, “Specchiatura 3” (2010)
4 minuti per la letturaLa mostra di Marco Benedetti dal titolo “7Daimon”, che si apre nella galleria Celal, con il patrocinio dell’Istituto Italiano di Cultura, a rue Saint Honore’ 45 a Parigi, ha una sorta di filo ininterrotto con quella di Milano del 2019 allo Spazio Orso.
L’ultima tela di quella esposizione antologica, dal titolo “BLU”, era, per l’artista, un enigma.
La tela ritrae un uomo che si sporge da un dirupo allungando il braccio sinistro nell’atto di versare qualcosa, non si sa cosa perché è senza mano. Dietro di lui, a vigilare, uno strano essere con forma di cane, cavallo, non è chiaro.
Ed è quella la forma che ha voluto indagare, nata in maniera quasi autonoma da lui.
Cercando di capire e capirsi, altre sette sculture vengono alla luce nei mesi successivi.
Sono ora le protagoniste a Parigi. Scrive Benedetti: “Quello che nasceva dalla creta era qualcosa che non cercavo, come se la materia mi guidasse per nascere in quello stato. Citando Cesare Pavese potrei dire che queste figure sono ‘qualcosa che da tempo avevo dimenticato’ e che ora davanti all’evidenza del ricordo, l’io-narrante non può che dire ‘capisco di avere innanzi una certezza, di avere come toccato il fondo di un lago che mi attendeva, eternamente uguale’. Di fronte a questi esseri nati autonomamente, ho deciso di ritrarli, quasi che, fermandone i tratti sulla tela, potessi renderli vivi”.
E ricorda Josè Ortega y Gasset che, nel libro “Carte su Velàzquez e Goya” , dice: “Ci sono in questo quadro tre figure, un orcio, due brocche, un bicchiere colmo d’acqua. Sono una serie di ritratti. La pittura è ritratto quando si propone di rappresentare l’individualità dell’oggetto. È un errore credere che ritratto sia soltanto la raffigurazione di un uomo, di un animale. Il ritratto, aspira a individualizzare. Fa di ogni cosa una cosa unica”.
Esiste quindi un percorso possibile, un viaggio mitico.
Il mito è un ricordo sepolto nella mente dell’uomo che bisogna far risalire in superficie.
Le creature di terracotta possono continuare il loro viaggio verso la nascita e diventano soggetti reali, vivi.
La pittura è stata un primo passo.
Il passo successivo è chiamare amici scrittori che, lavorando con le parole, creano un nome e una storia a questi oggetti scultorei, diventati ritratti di un mondo che non esisteva. Ora c’è.
Marco Benedetti è un uomo gentile e convinto. Ha con me un rapporto indiretto ma totalmente fiduciario, ed esso passa attraverso Filippo Martinez e una grande impresa a tre che fu, in Sardegna, nel cimitero di Sestu, la tomba (parola impronunciabile) di Emanuela Loi, una degli agenti di scorta di Paolo Borsellino, che fu uccisa nell’attentato di Via D’Amelio a Palermo.
Benedetti inventò esattamente quello che io ho sempre pensato come la contraddizione del mistero della morte: muore una persona cara e si dice che va in cielo ma, in realtà, la si mette sotto terra. Uno strano modo per andare in cielo!
Benedetti, in dialogo con Martinez, creò un sepolcro rovesciato disponendo, al posto della lapide, acqua e specchi. Cosicché chi avesse volto lo sguardo verso l’idea di Emanuela, ovvero la sua anima, avrebbe visto il cielo. Andai a Sestu, e parlai di questa donna straordinaria e perduta come se non fosse affossata lì, ma innalzata veramente in quel cielo che si specchiava nella bella invenzione di Marco.
Ho visto poi i suoi quadri, severi e concentrati, di gusto più tedesco che italiano, che, pur essendo semplici piacciono agli uomini colti e complicati, forse perché hanno una essenzialità che li fa sentire complessi e profondi. Ora Benedetti li porta, insieme ad alcune sculture, a Parigi, e si fa semplice , sintetico, neogiottesco. Scolpisce e dipinge animali in un suo personalissimo zoo, dove non stanno in cattività ma appaiono liberi come in un sogno, in cui niente è come nella realtà, ma lo sembra.
Le creazioni di Benedetti, irreali, hanno una loro precisa e concreta consistenza, senza nulla concedere a una ipotetica surrealtà. Esse hanno, propriamente, la loro realtà. Da dove arrivano, se non dalla mente di Benedetti, non sappiamo, come non sappiamo dove sta lui. Certamente in un altro mondo, mentre si muove, composto e tranquillo, nel nostro, dal quale entra ed esce a suo piacimento. Oggi c’è, domani non c’è.
L’ho visto la notte a Ortisei, dov’era venuto senza saperlo, serenamente; la mattina non l’ho più trovato. Come lui, le sue creazioni ci sono e non ci sono. Restano comunque inevitabili. E oggi le vedete a Parigi, semplici, arcaiche, primitive, spontanee, in una infanzia senza fine.
Inutile cercarne un senso, quando è la nostra vita che non ha senso.
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