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DUE panchine in legno lustro d’olio di lino. All’ombra di un platano dal tronco talmente grosso che a cingerlo non bastavano tre adulti a braccia larghe. Erano il riparo e il ritrovo dei vecchi. Vi giungevano strascicando i piedi, arrancando in affanno. Lì, canuti e acciaccati, la pelle arida e raggrinzita, le mani sulla curva del bastone e il mento adagiato sopra, si lasciavano vivere, o morire.
Giuseppe ce l’aveva fatta a superare un altro inverno, nonostante il morbo avesse penetrato il borgo ormai nel silenzio dell’abbandono – non era più un paese, dopo che, nelle viscere del secolo precedente, le viuzze erano state così affollate da non credere che l’aria che le penetrava potesse bastare a saziare i polmoni di tutti. Aveva carpito vite, il morbo nuovo, quell’insetto minuscolo e invisibile che li costringeva a un bavaglio sulla bocca. Non sapeva quali fossero cadute. I suoi glielo negavano, per non appesantirgli i giorni. Che succedesse lo rivelavano però le tre campane della chiesa, da mesi troppo prodighe dei colpi distanti e brevi del mortorio. Si ritrovò solo sulla panchina a scandire un lento scorrere del tempo, di sicuro altrove più veloce. Sprigionava un senso d’immutabilità. Offriva penosa vista, tremolando le gengive vuote, sbavandosi, reclinando la testa al sonno.
I compagni non intese pensarli trapassati. Erano in ritardo e basta. E li attendeva, guizzando inquieti gli occhi, o smarrendoli a inseguire il sogno su cui si era inceppata la morte: superare i cent’anni di vita. Gli mancava un’inezia, che maggio deflagrasse in giugno. Su quelle panchine ci sarebbe riuscito, perché soccorrevano i sogni.
Più di vent’anni prima, alla svolta del millennio, s’era compiuto quello di Giasone, un ragazzo del ’99 sulle pietraie del Carso. Al tiepido sole di primavera o all’ombra nei tardi pomeriggi d’estate, aveva consumato ore che lo separavano dal traguardo di aver respirato l’aria di tre secoli. Con la caparbietà dell’attesa aveva sospinto indietro l’unico ostacolo: la morte. A cui s’era poi arreso con un ghigno soddisfatto, da lì a una settimana.
Giuseppe gongolava per la meta vicina. Ma nulla poteva contro la nebbia che gli s’infittiva nella mente, accavallandosi all’ansia di varcarla infine quella soglia, anche di un solo giorno, del tanto che bastasse a coronare il sogno tardivo della sua vecchiaia. E si smarriva fino a perdersi in un mondo nel quale scompariva la cima da raggiungere, in anni lontani d’improvviso nitidi e presenti, quasi li stesse vivendo davvero, di quando era lui a decidere a cosa coltivare le terrazze dell’orto o se fosse tempo per impalare i fagioli, di quando avvertiva nella sua stanchezza il momento che anche i figli cedessero il lavoro. E “sputa” si diceva, con un puntiglio accorato, nel rendersi conto dello smarrimento, rammentando il gioco da ragazzi a colpirsi con le canne sulla testa, che pretendeva uno sputo in terra per scongiurare il rischio di esalare lì gli ultimi fiati.
Ci arrivò alla vetta. Non se ne avvide però: il centesimo anno lo colse smarrito nei ricordi, mentre stentava i passi sulle nevi della Russia o mentre era nel podere comprato con gli anni d’America, dove la zappa gli pesava una piuma, tanta era la soddisfazione di affondarla da padrone, e non più da bracciante. Ripercorse fino al fondo ore di gioventù, sorpreso di vedersi le mani ingentilite dai decenni di riposo, e muovendo rumorose, sciacquettanti e rapide le labbra, come per rinvigorire la brace di un sigaro che si andava spegnendo. E “sputa” ancora ripeté l’attimo prima di arrendersi all’insetto.
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