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La classe operaia in biblioteca, il motivo della fabbrica, inteso nel complesso rapporto tra industria e letteratura e il legame uomo-macchina, stimolò numerosi scrittori italiani, anche di spicco del panorama letterario novecentesco


«Le loro facce sfuggivano, si smembravano sulle macchine e sui pezzi o cadevano in sorrisi che sapevano di falso come le luci stesse dei reparti». Con queste parole Paolo Volponi, attraverso lo sguardo impotente di Albino Saluggia, eccezionale protagonista del Memoriale del 1962, dipingeva gli aspetti più dolorosi e intensi della vita in fabbrica.

Gli anni erano quelli immediatamente successivi al miracolo economico italiano, un boom che aveva interessato il secondo dopoguerra e che fino all’inizio degli anni Sessanta fu caratterizzato da una notevole crescita economica e un rapido sviluppo tecnologico.

L’ITALIA INDUSTRIALE E IL DIVARIO TRA NORD E SUD

Nonostante ciò, il divario tra Nord e Sud s’era fatto sempre più netto, acuendo maggiormente l’ormai secolare questione meridionale. Erano gli anni dei grandi gruppi, della Fiat e di Montedison, di Ansaldo e Olivetti, dell’epocale passaggio da Ilva a Italsider, prima di tornare a Ilva (S.p.A.) sotto Giovanni Gambardella e la famiglia Riva nell’anno della caduta del muro di Berlino.

Le pagine del Memoriale, anticipando di pochi mesi il primo shock salariale dovuto alla massiccia ondata di scioperi tra il ‘62 e il ‘63, gettarono luce anche sugli effettivi problemi personali e sociali della condizione operaia, sui risvolti psicologici dei rapporti umani e su un contesto lavorativo alienante e spersonalizzante. Questa prima presa di coscienza di malessere psicologico, la narrativa del secolo fu in grado di raccontarla e indagarla a fondo.
Il motivo della fabbrica, inteso nel complesso rapporto tra industria e letteratura e il legame uomo-macchina, stimolò numerosi scrittori italiani, anche di spicco del panorama letterario novecentesco, ma «solo per alcuni di essi questo motivo divenne dominante nella loro produzione e sfociò in una vera ricerca interpretativa e di linguaggio».

LA CLASSE OPERAIA VA IN BIBLIOTECA: LA LETTERATURA INDUSTRIALE

A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta in Italia fiorì un vero e proprio filone letterario noto, per l’appunto, come “letteratura industriale”. A questa tematica Giuseppe Lupo e Giorgio Bigatti, nel 2013, dedicarono l’antologia Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale, a testimonianza di quanto «l’identità italiana» sia stata evidentemente «industriale» e, dunque, meritevole di spazio.

Carlo Bernari, scrittore e fondatore dell’Unione Distruttivisti Attivisti, con il romanzo Tre operai del 1934 anticipò di circa vent’anni alcuni degli argomenti più complessi relativi al mondo della fabbrica, riuscendo ad allarmare persino il regime mussoliniano che prontamente lo censurò. Ciò che indusse il fascismo a mettere a tacere il libro fu un racconto di sofferenze e fallimenti, figlie di una classe operaia «impossibilitata a condurre una vita dignitosa», critica e finanche troppo eversiva nei confronti del potere dominante. Prima di Bernari, Federigo Tozzi, tra i più grandi romanzieri italiani del Novecento, trattò il tema della nevrosi aziendale, dell’ansia, delle paure di un’esistenza irregolare. In tal senso Ricordi di un impiegato è tuttora uno spaccato narrativo di forte stampo psicologico che lasciò intravedere, già diversi anni prima, la sensibilità degli autori italiani a questo tema.

LA FABBRICA COME MONDO ALIENANTE

Tra i principali interpreti della fabbrica intesa come mondo alienante, in grado di generare operai-automi in preda alle nevrosi, è necessario ricordare Paolo Volponi e Ottiero Ottieri. Entrambi dipendenti della Olivetti, il primo fu direttore dei servizi sociali, il secondo capo del personale, attraverso pagine disarmanti di rara intensità, in una scrittura sospesa tra documento asettico e capitale umano, hanno saputo dar voce ai luoghi dell’industria e all’umanità che li ha abitati con difficoltà. La sensazione di spaesamento, della lontananza psicologica, l’assenza totale da sé stessi, sono solo alcune delle ragioni approfondite dal Memoriale di Volponi e dalle opere di Ottiero Ottieri, su tutti Tempi stretti, Donnarumma all’assalto e La linea gotica, pubblicati tra il 1957 e il 1963.

Albino Saluggia, il contadino assunto in una grande fabbrica di Ivrea che popola le pagine volponiane, è un personaggio paranoico in grado di cogliere l’essenza della realtà nella fabbrica, la stessa che dietro la razionalità nasconde un sistema alienante in grado di trasformare gli operai in appendici delle macchine. Il Memoriale, considerato tra i romanzi più significativi di questi anni, mette in scena quella sensazione straniante di non poter vivere la propria esistenza in un sistema in cui «tutto è già stato stabilito a un livello sovraindustriale».

Inghiottito da una nevrastenia senza via d’uscita, Saluggia è riuscito lì dove molti, in precedenza, avevano fallito e cioè a «obiettivare la condizione tipica dell’uomo nell’età industriale». Questa particolare attenzione alla salute psico-fisica dei dipendenti-personaggi incentivò, senza dubbio, lo sviluppo degli studi effettivi sulla psicologia del lavoro nata proprio come “psicologia industriale”. Lo stesso Adriano Olivetti, molto interessato all’argomento, creò un vero e proprio centro di psicologia industriale.

LA CLASSE OPERAIA VA IN BIBLIOTECA: OTTIERO OTTIERI

Fa comunque riflettere il dato per cui, nel 1961, il 90% delle attività dei centri di psicologia del lavoro si occupassero esclusivamente della selezione del personale. Di Volponi sono anche La macchina mondiale e Corporale, quest’ultimo, in modo particolare, è un romanzo complesso e profondamente critico nei confronti del sistema industriale e del potere delle multinazionali.

Il primo contributo di Ottiero Ottieri alla letteratura industriale fu invece il romanzo Tempi stretti (1957) nel quale diede ampio spazio alla trasformazione della realtà industriale a Milano. Trasferito a Pozzuoli scoprì, suo malgrado, una realtà socio-economica e umana che mise in crisi le sue precedenti convinzioni. In questo contesto nacque Donnarumma all’assalto (1959), tra le sue opere più celebri, un sofferto diario in cui matura la consapevolezza della complessità della condizione operaia del Mezzogiorno.

LA CLASSE OPERAIA VA IN BIBLIOTECA, IL MONDO MINIMALISTA DI LUIGI DAVÌ

Nello stesso anno di Tempi stretti, Luigi Davì, operaio e scrittore, caso piuttosto raro nella narrativa italiana (tra i pochi altri Vincenzo Guerrazzi, lo “scrittore-pittore-operaio” di Mammola autore di Vita operaia in fabbrica: l’alienazione e Le ferie di un operaio o Tommaso Di Ciaula, poeta-operaio tanto amato da Sciascia e scomparso, quasi dimenticato, un paio di anni fa), dà alle stampe per Einaudi Gymkhana-cross. Il mondo minimalista delle storie di Davì ritrae una vita di fabbrica che va al di là delle mansioni e riesce a perdersi in scherzi goliardici e volontà di costruire qualcosa, anelito a diventare qualcuno.
La grandezza dei racconti di Davì – e lo si evince anche dal breve romanzo Uno mandato da un tale – risiede nelle sue descrizioni puntellate da una lingua “orale”, molto vicina al parlato, che rispecchiano la vita e i sentimenti degli operai durante il processo di industrializzazione del nord Italia, nel passaggio dal mondo agricolo tradizionale a una vera e propria civiltà industriale.

Per vari decenni del Novecento la fabbrica rappresentò una tappa quasi obbligatoria per gli scrittori italiani, e non nella sola accezione negativa data dalle condizioni patite di oppressione, fatica e disagio. Luciano Bianciardi, Lucio Mastronardi, Primo Levi, Giovanni Arpino, Nanni Balestrini ne sono un chiaro esempio. Per non parlare di chi dedicò brevi “incursioni” all’ambito industriale. Su tutti Vittorio Sereni e la sua Visita in fabbrica, Italo Calvino e I giovani del Po, tentativo non riuscito, per sua stessa ammissione, di realizzare un romanzo operario, Carlo Emilio Gadda con Pane e chimica sintetica, «manifesto della professione “eroica” dell’ingegnere».

LUIGI SINISGALLI E LA NASCITA DI “CIVILTÀ DELLE MACCHINE”

Ruolo certamente di spicco nel panorama letterario industriale lo rivestì Leonardo Sinisgalli. Con il sostegno finanziario di Finmeccanica, fondò nel 1953 la celebre rivista Civiltà delle macchine che ebbe come principale obiettivo editoriale quello di integrare perfettamente l’arte con la tecnica, «ricercando la possibilità di leggere l’una con la visione dell’altra e viceversa». In tantissimi aderirono all’intento programmatico di Sinisgalli, da Giuseppe Ungaretti ad Alberto Moravia, e in breve tempo la rivista divenne «la fonderia culturale di un’Italia che abbracciava il futuro attraverso l’ottimismo dell’innovazione» in cui l’unico limite era il «non limite». Tematiche simili tornano in Quaderno di geometria e Ritratti di macchine, due degli scritti più noti dell’autore lucano.

Nel 1961 Elio Vittorini e Italo Calvino dedicarono l’intero quarto numero della rivista «Menabò» al complesso rapporto tra letteratura e industria. Franco Fortini, invece, sarà tra i primi scrittori italiani a entrare in contatto diretto con Adriano Olivetti e promuoverà, nello stabilimento di Ivrea, le iniziative culturali incentrate sulla biblioteca, lavorando a stretto contatto con i vari reparti dell’azienda. Luciano Bianciardi nel 1962 scriverà La vita agra, una critica feroce e ironica del boom economico italiano e della disumanizzazione del lavoro in una grande città industriale. Giovanni Giudici, nelle sue poesie tra un turno in fabbrica e l’altro, darà voce all’agitazione e alla paura, nostalgia e sensi di colpa: «Io tornavo a casa e scrivevo, scrivevo poesie per tornare alla realtà, scrivere non era una scelta, era necessario».

IL RACCONTO DELLE LOTTE OPERAIE DEGLI ANNI ’60

Nanni Balestrini in Vogliamo tutto racconterà le lotte operaie del 1969 a Torino, focalizzandosi sulle esperienze degli operai FIAT e sui movimenti di protesta; Giovanni Arpino ne La suora giovane pur non trattando esclusivamente il tema industriale, esplora i cambiamenti sociali ed economici dell’Italia post-bellica dedicando particolare attenzione alle dinamiche del lavoro. In otto storie apparentemente «autosufficienti» Romano Bilenchi in Il capofabbrica racconta le vicende di Marco, giovane protagonista entrato a lavorare in fabbrica, intrecciate a una realtà contadina fatta di speranze, ambizioni, violenze e avidità.

E ancora Lucio Mastronardi che con la trilogia di Vigevano (Il calzolaio, Il meridionale e Il maestro di Vigevano) colpì profondamente Calvino, tanto da indurlo a scrivere, nel 1960, una lettera a Vittorini in cui sosteneva che Il maestro di Vigevano di «un’oscenità, uno schifo dell’umanità che fanno restare senza fiato» era «pieno di motivi assolutamente paranoici, una cupa opera di poesia in cui non ci sarebbe da toccare una virgola». Anche Primo Levi ne La chiave a stella del 1978 racconta la storia di Libertino Faussone, un montatore di impianti industriali, esplorandone il valore del lavoro e le implicazioni etiche e personali.

FABBRICA CARTA, L’OPERA ANTOLOGICA DI LUPO E BIGATTI

In Fabbrica di carta, l’opera antologica di Lupo e Bigatti, si enumerano tantissimi casi di autori del nuovo millennio che, in certa misura, hanno dato continuità all’istanza industriale della letteratura.
Temi come l’alienazione, la lotta di classe, l’etica del lavoro, infatti, hanno continuato a tenere sottotraccia per decenni, generando inquietudini e problematiche antropologiche condivisibili con il nuovo immaginario letterario. Acciaio di Silvia Avallone e Storia della mia gente di Edoardo Nesi sono tra i più lucidi esempi di questo continuum. Il primo, vincitore del Campiello nel 2010, raccontò l’adolescenza di Francesca e Anna sullo sfondo della Lucchini e del complesso metallurgico di Piombino; il romanzo generò alcune polemiche proprio con l’Inchiesta Operaia di Piombino, soprattutto per la trattazione dei problemi degli infortuni sul lavoro e «i disagi e le miserie delle persone».

Storia della mia gente, invece, vincitore del Premio Strega nel 2011, rappresentò il mutamento della piccola e media industria italiana e la risibilità dei successi inseguiti da personaggi «incolti e ruspanti». E ancora Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio di Remo Rapino, Alberto Prunetti con la «terribile storia operaia» di Amianto che ripercorre quel solco ideale dei Minatori della Maremma, un’inchiesta sulle condizioni lavorative dei minatori delle Colline Metallifere a Grosseto scritta a quattro mani da Luciano Bianciardi e Carlo Cassola.
Letteratura e industria, oggi e per tutto l’arco del Novecento, hanno sempre offerto pareri discordanti e prospettive profondamente diverse; da un lato il miracolo industriale, la «via di libertà» del lavoro industriale, dall’altro un «sentimento del contrario», tanto caro a Pirandello, in cui libertà non è solo partecipazione, ma intollerabile imposizione.


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