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Troppo distanti dai nostri quegli anni, troppo remoti dal nostro sentire, dai nostri sentimenti. E quegli amori appaiono ora, a noi contemporanei, galanti in modo esagerato, eroici, fin troppo cavallereschi, senza parlare di quei lieto fine stucchevoli. Era ancora una guerra di cannoni e di spade, ma il bilancio fa lo stesso impallidire: cinquantamila vittime
Guerra e pace, rileggerlo a distanza di quarant’anni e oltre richiede uno sguardo più profondo e analitico.
In altri tempi vi avrei parlato di quella società affollata di nobili, militari, funzionari di Stato e di tutto ciò che vi ruota attorno. Della girandola di ricevimenti fra Mosca e Pietroburgo, in case continuamente affaccendate, di inviti su inviti, di legami fra questa parte separata di società occupata a fare delle relazioni un veicolo di promozioni, di favori, di ascesa sempre più in alto, di considerazione sociale perseguita con ossessiva determinazione, di collocamento con matrimoni ben mirati delle proprie figlie, a volte ancora ragazze, e dei propri figli da ben collocare secondo il censo e secondo il prestigio. Per incrociare un “partito di milioni”, come si esprimerebbe Marja Ignàtjevna Perònskaja.
Vi avrei parlato del salotto di Anna Pàvlovna e delle conversazioni che vi avvenivano, delle dame ingioiellate e con le schiene nude in quei continui balli ad uno dei quali, quello del 31 dicembre del 1810, “il primo grande ballo al quale Nataša andasse in vita sua” come ci informa Tolstòj e in cui la giovane Rostòv incontrerà il principe Andréj Bolkonskij. In quello stesso ballo lei vedrà l’apparizione del sovrano, l’imperatore Alessandro, l’angelo incarnato, come veniva designato.
Vi avrei parlato di descrizioni minuziose come queste: “Sul margine della strada c’era una quercia. Probabilmente dieci volte molto più vecchia delle betulle che formavano il bosco, era dieci volte più grossa e due volte più alta di ogni betulla. Era un’immensa quercia che aveva due braccia di circonferenza, con i rami spezzati certo da molto tempo e la corteccia screpolata, coperta da antiche ferite. Con le sue enormi braccia e le sue dita tozze, divaricate senza simmetria, essa si ergeva come un vecchio mostro, irato e sprezzante, in mezzo alle sorridenti betulle. Soltanto i piccoli abeti morti, e sempre verdi, che erano sparsi per il bosco, si univano alla quercia e non volevano sottomettersi al fascino della primavera e non volevano vedere né la primavera né il sole”.
E avrei aggiunto la maniaca ossessione per i dettagli – non necessari – come questi: “Il principe Andréj per primo, spettinandosi i capelli contro la tenda di mussolina, si allontanò dal lettino”. (“Si alzò e baciò la mano di Vjera, ma andando verso di lei accomodò l’angolo del tappeto che s’era rivoltato”).
Non avrei certo trascurato il vecchio burbero, energico e inacidito Nicolàj Andréjevic Bolkonskij. “Il vecchio principe”, che nella sua tenuta di Lysyja Gory non fa che tiranneggiare e umiliare quotidianamente la principessina Marja, la devotissima e mite figlia, con il suo spietato e misogino egoismo.
I suoi giudizi di militare sulla situazione contingente non ammettevano repliche: “Leva il sangue dalle vene, mettici dell’acqua, e allora non ci sarà più la guerra. Sogni di donnette, sogni di donnette!” e facevano il paio con la crudeltà verso la sottomessa e umile Marja, tanto buona d’animo, tutta slanci verso gli altri, così lontana da quell’egoismo della felicità a cui tutti parevano mirare, devota al padre e sorretta dalla sua fervente fede religiosa. Non le aveva risparmiato la sua dose di veleno nemmeno quando gli era giunto la richiesta del figlio che gli chiedeva il consenso per rompere la vedovanza e sposare Nataša: “Scrivi a tuo fratello che aspetti che io sia morto… Non sarà fra non molto: presto gli leverò l’incomodo”. Così aveva intimato alla figlia, e l’aveva coperta di insulti con la sua lingua feroce e tagliente.
Mi sarei soffermato sulla straordinaria capacità di dipingere con le parole e di penetrare così a fondo nell’anima dei suoi personaggi, e come era accaduto a Flaubert, vi avrei fatto entusiasmare del Tolstòj “pittore” e “psicologo”. Così lo definiva Flaubert scrivendo a Turgenev per avergli fatto conoscere il capolavoro dello scrittore russo.
E non avrei di certo trascurato la sua forza poetica: “Già le prime gelate mattutine imprigionavano la terra inumidita dalle piogge autunnali, già la verzura si staccava col suo verde chiaro dalla terra bruna, calpestata dal bestiame, dai campi dove s’era raccolto il grano d’autunno e dalle stoppie color giallo vivo del grano di primavera, inframmezzate dalle strisce rosse del grano saraceno. Le alture e le foreste, che alla fine di agosto erano ancora come isole verdi in mezzo ai campi neri arati e alle stoppie, erano adesso isole dorate e di un rosso vivo fra le seminagioni autunnali color verde vivo”. Vi avrei parlato del conflitto di Hélèn, dell’incendio di Mosca e del suo essere rimasta vuota “come un’arnia senza l’ape regina”; e perché no? dell’ironia dello scrittore: “Benché i dottori lo curassero, gli cavassero il sangue e gli facessero prendere molte medicine, tuttavia guarì”.
Delle storie d’amore di cui sono cosparse le 1425 pagine belle fitte e dal corpo minuscolo di questi quattro volumi einaudiani (il romanzo lo avevo letto per la prima volta all’età di 28 anni) non vi avrei invece detto nulla. Troppo tempo è passato da quando iniziò a scrivere il suo capolavoro; ci aveva lavorato dal 1865 al 1869, e la società che prendeva in esame era quella dei primi anni dell’Ottocento. Troppo distanti dai nostri quegli anni, troppo remoti dal nostro sentire, dai nostri sentimenti. Quegli amori appaiono ora, a noi contemporanei, esageratamente galanti, eroici, fin troppo cavallereschi, e quei lieto fine stucchevoli. E nemmeno della decisione della Einaudi, secondo me sbagliata, di inserire tutte quelle parti in lingua francese (tra l’altro senza traduzione) che già a suo tempo Tolstòj aveva eliminato.
E della guerra? Beh, in fondo il titolo dell’opera apre con la parola guerra: Guerra e pace, e di morti ne ha fatti tanti il conflitto che ha visto opporre l’invasore Napoleone Bonaparte all’esercito russo di Alessandro I. Era ancora una guerra di cannoni e di spade, ma il bilancio fa lo stesso impallidire: di cinquantamila uomini fu la perdita fra le truppe russe, senza contare i saccheggi, le devastazioni e Mosca in fiamme. Quanti della sua Grande Armata composta da centomila uomini riuscì a portarne in salvo Napoleone al termine del ritiro, pare che la cifra sia stata intorno ai trentamila. Una vera ecatombe.
Ma a me preme annoverare nel conteggio anche ciò che mai gli storici e i resoconti di guerra mettono in evidenza. Non lo sarà nemmeno nel romanzo di Tolstòj, e sono gli animali da soma, da traino, da sfondamento. Possiamo figurarci il terrore degli uomini dei battaglioni che sulla diga di Augezd, per sfuggire ai cannoneggiamenti e agli assalti, “si accalcavano ora, fra carriaggi e cannoni, sotto i cavalli e fra le ruote, uomini sfigurati dalla paura della morte, spingendosi l’un l’altro, morendo, scavalcando i moribondi e uccidendosi fra loro, per essere poi uccisi lo stesso dopo aver fatto qualche passo” come scrive Tolstòj della battaglia, ma il terrore inciso negli occhi e nella carne dei cavalli non ce li fa vedere né sentire.
Gli arti spezzati, il ventre crepato, il sangue che sgorga dai loro corpi non li vediamo. Vediamo invece le frustate che colpivano i cavalli per spronarli ad andare avanti. E quando i soldati si spingeranno sulle acque ghiacciate della diga e il ghiaccio franerà sotto i loro piedi per il peso, o perché rotto dalle palle dei cannoni dei francesi, sappiamo che “una quarantina d’uomini” affogheranno. E di cavalli quanti ne affogheranno assieme al peso dei loro carichi? Chi ne ha avuto pietà? E quanti ne morirono assiderati nel ghiaccio del terribile inverno russo? Quanti durante il conflitto e a seguito della fuga e della ritirata dei francesi?
Cosa spinge milioni di uomini a massacrarsi a vicenda, a devastare, ridurre a rovine, a incendiare, a varcare il confine di un Paese per aggredirne un altro, di questo voglio invece parlarvi. E come ce li poniamo oggi noi questi interrogativi, se li è posti a suo tempo Tolstòj scrivendo Guerra e pace.
“Quale forza ha obbligato questi uomini ad agire in tal modo?” si chiede Tolstòj. E ancora: “Qual è la forza che muove i popoli?”.
Alla molteplicità delle cause che ciascuno storico può addurre, lo scrittore russo aggiunge che essi dovranno rispondere alla domanda essenziale della storia: che cosa è il potere? La sua indagine copre l’intera seconda parte del quarto volume dal I al IX capitolo, fino a prima dell’Epilogo (capitolo X) nel quale svolgerà la sua disamina sui concetti di libertà e necessità. Il rapporto di dipendenza “di chi ordina con coloro ai quali si impartisce l’ordine è proprio ciò che si chiama potere” scrive Tolstòj. “Per agire in comune gli uomini si riuniscono sempre in certi agglomerati nei quali, nonostante la differenza del fine assegnato all’attività comune, i rapporti fra gli uomini che prendono parte all’azione restano sempre i medesimi”.
Il più evidente di questi “agglomerati” per dar corpo alle loro azioni collettive è l’esercito.
Vediamo come ce lo descrive Tolstòj: “Ogni esercito è costituito di membri del grado militare più basso, i soldati semplici, che sono sempre la grande maggioranza; poi da quelli un po’ più in su di grado, i caporali, i sottufficiali, che sono in numero minore dei primi; di quelli di grado ancora più elevato, il cui numero è ancora minore, e così di seguito fino alla suprema autorità militare che è concentrata in una sola persona”.
Questa struttura Tolstòj la paragona ad un cono alla cui base stanno i soldati semplici (la più lunga di diametro e la più consistente di numero); man mano che si sale lungo il cono della piramide la base si restringe, in numero diminuisce e i gradi di comando aumentano, così fino al vertice alla cui sommità sta il più alto in grado, uno solo, il comandante. Ne discende che ad uccidere, massacrare, incendiare, saccheggiare, è il gruppo più numeroso, quello che forma la base della piramide, che esegue gli ordini di coloro che stanno in alto nella piramide.
“E questo rapporto degli uomini che ordinano con quelli che ricevono gli ordini costituisce l’essenza del concetto chiamato potere” scrive Tolstòj. E più sono vaste le organizzazioni (quella militare lo è in sommo grado) che tendono ad un medesimo scopo, “più nettamente” avviene la separazione fra “le categorie delle persone”. Sono quest’ultime, quelle cioè che non prendendo parte all’azione, “a dare ordini” . La massa di chi agisce lascia “a quelli che non prendono parte all’azione la cura di riflettere, di giustificare e predisporre l’attività collettiva”. Ne discende che le giustificazioni, anche le più aberranti e criminali, “tolgono la responsabilità morale agli uomini che sono autori dell’avvenimento” . Senza queste giustificazioni dice lo scrittore, non si capirebbe come “milioni di uomini compiono delitti collettivi, guerre, massacri, ecc.”.
A conclusione del suo ragionamento Tolstòj tira le somme e risponde alle due domande:
1) “Il potere è quella relazione fra una data persona ed altre persone, per la quale questa persona tanto meno partecipa ad un fatto, quanto più esprime opinioni, supposizioni e giustificazioni intorno all’atto collettivo che si compie. 2) “Il moto dei popoli non è prodotto dal potere, né dall’azione intellettuale e neppure dall’unione di queste due cose (…) ma dall’attività di tutti gli uomini che prendono parte all’avvenimento e che si uniscono sempre in modo che coloro i quali parteciperanno più direttamente all’avvenimento ne prendono su di sé la minore responsabilità e inversamente. Moralmente parlando, causa di un avvenimento appare il potere; fisicamente parlando, coloro che sono sottoposti al potere. Ma siccome l’attività morale è inconcepibile senza l’attività fisica, la causa del fatto non si trova né nell’una né nell’altra, ma nell’unione di ambedue”.
Visto l’enorme potere che gli uomini del nostro tempo delegano a politici e generali, ripensare alla propria responsabilità morale a cui ci invita Tolstòj sarebbe una buona pratica.
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