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Sylvain Tesson

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Sylvain Tesson, vite strattonate da una mano invisibile

Crediamo di conoscere la forma dell’uomo. Due occhi e la bocca, un naso e le orecchie. Ma l’uomo di oggi, che sia stondato dai menù dei ristoranti o temprato dai macchinari isotonici delle palestre, è modellato da quella mano invisibile a cui Adam Smith riconosceva il potere di mettere in ordine la società senza che nessuno se ne accorgesse. Per questo, incontrare colui che è riuscito a svincolarsi dalla presa di quelle cinque dita fa lo stesso effetto di imbattersi, lungo una tranquilla passeggiata, nel muso affusolato del lupo.

Sylvain Tesson non somiglia a un uomo moderno. I suoi tratti sono più antichi, preistorici. Gli occhi distanti, troppo chiari; il viso eccessivamente scavato. Sul cranio i segni di avventure animalesche: quelle in cui si è a stretto e costante contatto con la morte. Non fosse per la scrittura, abilità propria solo della razza umana, quasi nulla lo accomunerebbe ai suoi simili biologici. Eppure, se ciò che differenzia l’uomo dal resto del creato è soprattutto la maledizione di aver scoperto la domanda perché?, Tesson sarebbe un esemplare di rara purezza, il prescelto ideale per un rapimento alieno, per mostrare in tutte le galassie fino a quali profondità può spingersi la coscienza dei Sapiens. La sua letteratura è la sua vita, non esiste linea di confine. E vita e letteratura nascono da un quesito tanto semplice quanto tragico: che ci faccio qui?

La risposta, indicibile per i più, lo colpisce con la violenza della verità senza neanche lasciarlo arrivare al punto interrogativo. Darle una forma, tramutarla in linguaggio attribuendole nomi e aggettivi, richiederebbe una dose di coraggio spropositata, una forza che la natura ha concesso soltanto alla stretta dei gorilla e al morso degli alligatori. Forse per dimenticare quella verità, forse per onorarla, Tesson comincia a viaggiare.

È sull’altipiano di Quangtang, poi lungo le spiagge del canale del Mozambico. Infanga gli scarponi sui sentieri bordati di rovi che si allontanano dal letto del Rodano. Riposa in una grotta scavata nella roccia alle pendici dell’Himalaya, nell’attesa che compaia dal bianco della neve il manto maculato della pantera. Cammina sulle acque ghiacciate del lago Bajkal, a trenta gradi sotto zero e a centoventi chilometri dal più prossimo villaggio. Sfreccia a bordo di un sidecar sovietico lungo l’arteria principale che connette Mosca a Minsk, con i tir bielorussi alle calcagna – una sola esitazione e il viaggio si concluderebbe anzitempo. Prosegue senza mai fermarsi, animato dal desiderio febbrile del viandante che non conosce meta.

I suoi libri sono resoconti del suo andare, ognuno un capitolo del viaggio. Leggendoli, si è immediatamente colti da un profondo imbarazzo. Il mondo che descrivono dovrebbe essere lo stesso su cui le nostre automobili scalpitano a motori accesi, ferme ai semafori, impazienti di colmare il tragitto dall’ufficio al supermercato. Invece, appare diverso.

L’acqua non scorre dai rubinetti, ma sgorga dalle sorgenti. L’aria fredda non congestiona le mucose – sparata dalle bocchette dei condizionatori, dalle eliche dei ventilatori – ma scompiglia i capelli e sospinge i passi. Il sole non sorge a mezzo metro dall’orizzonte livellato delle scrivanie, rinchiuso nel concavo di un paralume, ma si erge libero nel cielo e, quando è stanco, si poggia sulle spalle dei monti. «Più le cose si conoscono, più diventano belle» scrive Tesson. E ci sono solo due modi di consacrare il dono della bellezza: con il silenzio più assoluto o tentando di esaurirne la nomenclatura. Cercando di non lasciare niente d’innominato.

Gli scrittori tendono a scegliere questa seconda via d’adorazione, intenzionati a concretizzare con le parole ciò che altrimenti si dissolverebbe appena voltato lo sguardo. In questo la loro frenesia è simile a quella del viaggiatore, che ha bisogno di catalogare la vita con gli occhi per renderla reale. Scrittore e viaggiatore hanno in comune un’ossessione disperata: trovare una risposta alternativa alla domanda che ci faccio qui?. E una risposta che sia valida, che non deperisca in fretta nelle discariche del tempo.

In Beresina, prima di montare in sella a una vecchia moto con cui ripercorrerà le tappe della ritirata dell’esercito napoleonico dalla campagna di Russia del 1812, Tesson scrive: «l’uomo non è mai contento della sua condizione […] la molla che lo spinge ad agire è l’insoddisfazione». Ma il suo agire è una fuga o una ricerca? Se lo chiede anche lui, sorseggiando distillati casalinghi nelle isbe, riparato da una visiera appannata sulla strada per Vilnius o infilato nel sacco a pelo in un anfratto tibetano, cullato dai muggiti lontani degli yak.

Arriva a una conclusione che lo coglie impreparato: forse nemmeno il viaggio lo condurrà alla soluzione. Forse la tensione che continua a spingerlo o attirarlo altrove non è così dissimile dalla nevrosi che perseguita gli uomini strattonati dalla mano invisibile. Un modo per assecondare la distrazione, per non soffermarsi troppo a lungo sulla spietatezza della risposta originale. Tra il febbraio e il luglio del 2010, Sylvain Tesson decide di fermarsi. Si fa scortare fino a una capanna di nove metri quadrati sul promontorio dei Cedri del Nord, in Siberia. Lì rimane, solo, per «chiedere all’immobilità quello che il viaggio non riusciva più a darmi: la pace», seguendo le orme di Wittgenstein e Thoreau. Con sé ha diciotto bottiglie di salsa Super Hot Tapas della Heinz, una canna da pesca, pasta in quantità, sigari, vodka e decine di letture arretrate. La mattina fissa il vuoto «nella posizione in cui Van Gogh ha dipinto il dottor Gachet»; riconosce il cinguettio degli uccelli artici, li chiama per nome.

Ogni giorno ricorda a se stesso di essere un uomo scrivendo. Dalle pagine di quel diario nasce Nelle foreste siberiane, che sarà per lui il libro della consacrazione.

La solitudine e la noia lo costringono a fare i conti con la sua vita interiore, l’unico territorio che non si esplora in lungo e in largo, ma in profondità. Raggiunti gli abissi dove nessuno ha più il tempo né il coraggio di avventurarsi, Tesson, il vagabondo, costruisce la casa a cui tornare. Partenza e fine di ogni viaggio, ricovero sicuro, alternativa sempre valida alla verità.



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