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James Baldwin

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JAMES Baldwin racconta che una volta, quando era giovane, si trovava all’angolo di una strada nel Village e il pittore Beauford Delaney a un certo punto gli indicò in basso e gli disse “Guarda”. Baldwin guardò e vide solamente una pozzanghera, nient’altro che acqua. Allora Beauford gli disse: “Guarda ancora” e fu allora che vide la benzina sulla superficie dell’acqua e la città riflessa nella benzina.

“Non so spiegarlo bene. – raccontò poi – Mi insegnò come guardare, e come credere in ciò che vedevo.” Micheal Ondaatje ha scritto che «Se Van Gogh era l’artista “santo” del diciannovesimo secolo, James Baldwin è quello del ventesimo.» Non credo che Baldwin avrebbe amato essere definito santo, lui preferiva “i peccatori e i matti, i quali sono in grado di imparare, di cambiare, di insegnare qualcosa.”, ma sicuramente in comune con Van Gogh aveva quel qualcosa che Beauford gli aveva mostrato di possedere all’angolo della strada del Village: la capacità di visione.

Era un ragazzo nato nel ghetto nero di Harlem alla periferia dell’America bianca degli anni venti del Novecento. Aveva davanti a sé un destino in cui continuamente avrebbe dovuto confrontarsi con “la strada, con le autorità e con il freddo.” “Sapevo cosa significava essere bianchi e sapevo cosa significava essere un negro; quindi sapevo a cosa sarei andato incontro prima o poi. Stavo per esaurire la mia dose di fortuna. Sarei andato in prigione, avrei finito per farmi ammazzare o per ammazzare qualcuno.” Dalla sua aveva solo quella scoperta fatta quel giorno al Village su se stesso.

Facciamo un salto in avanti di qualche decennio, sono gli anni 60 del 900. Infuriano le proteste dei neri d’America, scendono in piazza, marciano, saccheggiano le vetrine dei negozi. È stato appena ucciso Martin Luther King. Chiunque, nella comunità nera, sapeva e avrebbe saputo per sempre dove fosse e cosa stesse facendo nel momento in cui gli giunse la notizia di quella morte. James Baldwin, già scrittore noto, era in Europa e seppe subito che era il momento di tornare. Partecipa ai movimenti per i diritti civili di quegli anni che terrorizzano l’America bianca e fa quello che meglio gli riesce: osserva l’una e l’altra parte.

Baldwin ha osservato il razzismo della società bianca in un modo che era nuovo e inusuale: “Nella distanza che ci separa dai neri c’è tutta la profondità del nostro estraniamento da noi stessi”, e questo vale e per gli uni e per gli altri, in quanto il “nero” in America non è una questione di pelle o di corpi, ma una questione di simboli. Se essere nero è una condizione in cui ti rinchiude chi ti inquadra come tale, allo stesso modo il bianco “non è un colore, è una disposizione mentale. Sei tanto bianco quanto credi di esserlo.” All’origine del razzismo c’è sempre un problema personale, “tutto nasce da una tremenda insicurezza della persona in primo piano, un vuoto che non vuole essere scoperto.”

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È a questo punto che Baldwin compie quel mirabolante e inedito rovesciamento della visione, scorge la città riflessa nella melma della pozzanghera: “Non potete linciarmi e chiudermi in un ghetto senza diventare voi stessi dei mostri. – scrive – E oltretutto mi date un vantaggio terrificante. Voi non avete mai dovuto guardarmi. Io ho dovuto guardarvi. Io so di voi più di quanto voi sappiate di me.” Baldwin invita i neri, i discriminati e gli oppressi a non limitarsi a subire lo sguardo stereotipante e razzista, ma li esorta a trovare il coraggio di fissare a loro volta negli occhi la cultura che li opprime e chiedersi cos’è che stanno guardando. “Lo stile di vita americano ha fallito nel rendere le persone più felici o nel renderle migliori. Non vogliamo ammetterlo e non lo ammettiamo.”

La concezione occidentale, che da secoli sta dilagando nel mondo coinvolgendo la gran parte dei paesi mondiali nel suo ballo mortale di desideri non necessari, sfruttamento e frustrazioni indotte, produce immagini di benessere, il martellare del consumismo, la tenaglia capitalistica. Questi offrono una narrazione unica della vita che convoglia in un solo strettissimo canale tutti i desideri e le frustrazioni degli esseri umani: “Siamo crudelmente intrappolati tra quel che vorremmo essere e quel che siamo davvero. E non potremo verosimilmente diventare quel che vogliamo finché non saremo disposti a chiedere a noi stessi perché la vita che conduciamo su questo continente sia così vuota, scialba e brutta. Queste immagini […] indeboliscono la nostra capacità di fare i conti con il mondo così com’è, con noi stessi per come siamo. […] Questa è la formula per il declino di una nazione o di un regno.”

Siamo una società bloccata, Baldwin direbbe morta, intrappolata in un’eterna semplificazione di noi stessi, dei nostri giudizi e dei nostri desideri. Il sogno occidentale, in particolare quello economico, ha “fallito nella crescita psicologica delle persone” trascinandole “verso un’amara solitudine e un blocco vitale ed emozionale che costringe la testa sotto alla sabbia. L’assenza di auto-concezione della realtà porta a una paura della stessa e a una continua voglia che nulla cambi, che tutto debba stare come è, sempre. Il diverso crea scompiglio perché appunto altera la realtà della persona che non comprende, e che quindi odia il diverso e vuole tenerlo il più lontano possibile. Dunque il razzismo si aggrappa alla tetta dell’ignoranza e si soffoca da quanto è assetato.”

Ancora una volta occorre guardare e vedere che la concezione bianca della società è fallita semplicemente perché l’umanità non è mai stata solo bianca: “il mondo non è bianco. Non è mai stato bianco. Non potrai mai esser bianco. Bianco è una metafora per il potere ed è semplicemente un modo per descrivere la Chase Manhattan Bank.” Dall’altra parte, “il destino dell’America nera è legato a doppio filo a quello dell’America bianca, e viceversa. […] non esiste una salvezza dimezzata, la vittoria partigiana è inapplicabile, oltre ad essere immorale.” Ciò significa che questo scontro non potrà mai avere esito positivo dal trionfo di una parte sull’altra: “la condizione dell’afroamericano non potrà cambiare finché anche i bianchi non saranno liberi. Liberi da loro stessi. […] Per risollevarsi dal suo progetto suicida l’America deve allora accettare il proprio fallimento, deve, in sostanza, riconoscere le proprie contraddizioni. Solo così potrà smettere di sacrificare la comunità afroamericana sull’altare dei “colpevoli”.

Invece di piangere sul declino di questa società, dovremmo realizzare se effettivamente vogliamo conservarla tale, se vogliamo davvero continuare ad abitare in una casa che brucia da decenni o ammetterne il fallimento e cominciare a costruire qualcosa di nuovo.



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