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Banana Yoshimoto

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SE le case fossero organismi viventi, la cucina sarebbe il luogo insondabile e insieme familiare dove risiede la personalità di quell’essere vivente. La cucina domestica ha una duplice essenza: privata e pubblica, intima e sociale. Cambia fisionomia a seconda dell’ora del giorno, del momento, della frequentazione. È, se la si osserva bene, la più eloquente delle stanze. La cucina è universale ma ognuno la declina come preferisce, piccola o grande, un angolo cottura appena accennato, una stanza a parte. Abitata o abbandonata che sia, è qualcosa che necessariamente esiste perché legata alla nostra stessa sopravvivenza. Una casa senza cucina non si chiama casa, snatura la sua essenza.

Banana Yoshimoto fa della cucina il luogo dell’anima, il rifugio dell’io. C’è sempre una cucina in ogni casa, c’è sempre un posto che possa accogliere il tuo io, pur se lo condanni a vagare inquieto, a lungo. La cucina è la continuità dell’umanità, quel qualcosa di atavico, imponderabile e uguale a se stesso che si ritrova al fondo di ognuno di noi e ci rende umani. Al suo esordio, in età molto giovane, Yoshimoto pubblica Kitchen, che, prestissimo, raggiunge nel solo Giappone le 60 ristampe. Il successo mondiale, invece, è decretato proprio dall’Italia, dove per prima viene tradotta e ha un immediato e duraturo favore di pubblico.

La scrittura di Yoshimoto non è confortante, anche se offre conforto. Lo fa in un modo sotterraneo, onirico, a tratti inquietante. Dolcezza e dolore si riverberano indistinti nella sua prosa e nei suoi personaggi: “Io credo – scrive Yoshimoto – che la concezione secondo cui “la vita è un’esperienza infernale” e quella secondo cui “la vita è un’esperienza paradisiaca”, sebbene opposte, siano entrambe visioni mentali che hanno la stessa “quantità di significato” e per tanto si equivalgono. Non si tratta di scegliere quale è buona o cattiva, giusta o sbagliata, ma di riconoscere che le idee di inferno e paradiso prendono forma nel corso di un processo ininterrotto che chiamiamo “io”.” Sul filo cangiante di queste percezioni, Yoshimoto costruisce i suoi molti libri e racconti che vogliono essere riparo ma senza infingimenti: “Non credo che il dolore sia sempre lo stesso, né che certe tragedie siano equivalenti, nonostante il fatto che le vittime siano sempre vittime. Però è vero che nei miei romanzi cerco sempre una luce, una sorta di via d’uscita. Provo ad immaginare un universo nel quale chiunque si possa rifugiare e sfuggire alle angosce.”

I suoi personaggi, teneri e stralunati, vagano nelle cose del mondo e tra i sentimenti umani in cerca di quel luogo solido e familiare che per tutti esiste ma per ognuno può e deve essere differente. Yoshimoto stessa ha vissuto questa ricerca: “Da bambina mi sono sempre sentita diversa. Pensavo di essere pazza. Ero terribilmente sola. Quando verso i quattordici anni ho visto Suspiria di Dario Argento tutto il mondo che avevo nella mia mente e che mi separava dal mondo degli altri, era lì, in quei colori e quelle immagini, già completo e perfettamente formato. Capii che non ero pazza, e non ero più sola. Quando lo dico, alcuni storcono il naso, forse perché non considerano Dario Argento un grande artista. Ma io penso che forse, se non avessi visto quel film e non fossi uscita dal cerchio della mia solitudine, avrei finito per uccidermi”.

Banana Yoshimoto, nei suoi libri, racconta anche il cambiamento epocale che ha affrontato il Giappone, per certi versi anticipatore di quello che sta accadendo oggi in occidente: “Io credo che il Giappone sia in una situazione molto debole, non di forza, una situazione spirituale debole. Se lei cammina per strada, lei ha l’impressione che tutti vivano per se stessi, che vadano avanti un po’ per forza d’inerzia.” In questa casa inospitale, si alimenta la profonda angoscia dell’essere giovani nel Giappone contemporaneo, in quel momento di passaggio in cui la società e il mondo del lavoro ingloba e irreggimenta la personalità: “Diventare grandi è davvero un pericolo perché sei costretto a entrare nel mondo del lavoro che da noi è invasivo, ti toglie tempo, spazio, gioia, giovinezza. È per questo che la mia generazione fa di tutto per non crescere, vuole restare adolescente per sempre. Ma anche arrivare all’ adolescenza, uscire dall’ infanzia, può essere un pericolo: l’anno scorso c’è stata in Giappone un’ondata di suicidi di giovanissimi che non ce la facevano a superare la durezza terribile della scuola.”

Lei la sua scelta l’ha compiuta da piccolissima, guardando scrivere il padre, Takaaki Yoshimoto, grande poeta e critico letterario che ha influenzato la generazione degli anni sessanta. Lì, Banana Yoshimoto comprende che la scrittura può essere la sua strada di salvezza: “Perché avevo già capito che era il solo modo di essere libera, di tenermi il tempo per vivere, di non farmi schiacciare da un lavoro. Anche se pure il Giappone sta cambiando e dopo le tragedie del 1995, il terremoto di Kobe, la strage col gas nervino nella metropolitana di Tokyo, la grande crisi economica, c’ è chi comincia a ribellarsi a una vita senza vita, alla Karoshi, la morte per eccesso di lavoro che nel nostro paese capita.”

Tuttavia nella sua scelta salvifica regna l’ambiguità di tutta la sua poetica, la salvezza si conquista a un passo dalla distruzione: “Se uno vuole diventare veramente scrittore, è importante che si avvicini molto da vicino al confine tra suicidio e il diventare scrittore.”

“Sono molto interessata a due cose: all’aspetto dell’ambiente familiare che costituisce una persona, e ai fattori innati nella persona stessa. Questi sono i due elementi che ci formano. E se uno pensa a queste cose, viene giocoforza pensare sia al destino, sia alla morte. E quindi sono questi un po’ i fattori dei miei romanzi.” Quel momento in cui la vita trascorre naturalmente nella morte e viceversa, non fermandosi né nell’uno né nell’altro luogo, è la cifra della letteratura di Yoshimoto che racconta di un dolore caldo, nel quale, se lo si attraversa e se ne esce fuori, si arriva, alla fine, a comprendere se stessi. Un momento estremo in cui ci si riconosce o ci si perde per sempre.

“In qualunque famiglia ci sono problemi che visti dal di fuori sembrerebbero insuperabili. Eppure ogni giorno si mangia lo stesso, si fanno le pulizie, il tempo scorre senza troppi drammi, ci si abitua alle situazioni più assurde.” In qualunque individuo ci sono momenti di smottamento della personalità in cui ci si smarrisce, si soffre, si prende consapevolezza della propria stranezza, della propria irriducibile diversità, in cui ogni cosa di sé diventa estranea a se stessi. Eppure, a un certo punto, si compie la scelta di essere normali nella propria anormalità. Ogni cucina è cucina a proprio modo.



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