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Pier Paolo Pasolini

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Sappiamo tutti com’è finita. Abbiamo passato gli occhi più volte su quel corpo lungo e secco, abbiamo rimestato nella sabbia sporca di Ostia e formulato le nostre teorie, tesi, congetture. Poche altre morti sono così pubbliche da trascendere il corpo, me ne viene in mente un altro di cui conosciamo a memoria le braccia magre, il costato scheletrico, le gambe piegate. Sulla sua morte facciamo congetture e abbiamo tesi da due millenni. Le morti simboliche, le morti esemplari, è come se ponessero un suggello su chi le subisce. Un suggello che rende eterni i suoi tratti, profetiche le sue parole, emblematica la sua esistenza, appiattisce le complessità, spiana le contraddizioni. Sappiamo tutti com’è finita. Tendiamo a dimenticare chi fosse l’uomo all’inizio.

È il centenario dalla nascita di Pier Paolo Pasolini. È stato detto che solo Pasolini, come D’Annunzio o Pirandello, ha sperimentato tutti i generi artistici della sua epoca: racconti, romanzi, opere teatrali, sceneggiature e regie cinematografiche, saggi politici e di critica letteraria e, ovviamente, la poesia. Conosciamo tutti il suo nome, i tratti scavati del volto. Lo chiamiamo in causa, tutt’ora, per corroborare giudizi sul costume o la decadenza dell’Italia, per benedire il nostro pensiero. O, a seconda del nostro credo, per maledirlo e sbeffeggiarlo ancora, per trionfare su di lui, sul suo stile di vita, sui suoi errori di giudizio. Un ragazzo lo ha percosso una notte a sprangate e poi ci è passato sopra con l’auto, una due tre volte. Così è stato appurato a processo. Sostenuto da alcuni, contestato da altri. Sappiamo tutti com’è finita e nessuno lo sa con certezza.

Ma non conta molto, la morte è quella cosa capace di dare in misura incontestabile coerenza e senso a un’intera vita: “Finché io non sarò morto, nessuno potrà garantire di conoscermi veramente, cioè di potere dare un senso alla mia azione […]. È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita […] è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in successione[…] Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci.”

Porco, martire, frocio, censore morale, intellettuale, comunista, pedofilo, cattolico, pervertito. Trentatré processi in vita. Corruzione di minore, atti osceni in luogo pubblico, vilipendio della religione di stato, oscenità, rapina a mano armata perfino. Quindici anni ininterrottamente sotto processo pubblico, mentre la sua vita veniva scandagliata, il suo corpo e la sua intimità esposti. Fuori la stampa e la società lo giudicavano, lo deridevano, lo linciavano. “Una figura lo aveva sempre ossessionato: – scrisse Citati alla sua morte – Cristo deriso, sputato, colpito, lapidato, inchiodato, ucciso sulla croce. Facendo film, scrivendo e vivendo, egli cercava soltanto di venire lapidato ed ucciso, come la pietra dello scandalo, la pietra d’inciampo, che viene respinta dalla società umana.”

I gesù cristi in terra non sono santi, quella è prerogativa divina e viene dopo la morte. Non è tanto com’è finita che conta. È la loro vita cui dovremmo guardare bene: “I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. – aveva detto Pasolini nella sua ultima intervista, il giorno prima di morire – Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, “assurdo”, non di buon senso. Eichman, caro mio, aveva una gran quantità di buon senso. […] Magari avrà anche detto agli amici: a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno, alla televisione. […] Ma non ha mai inceppato la macchina.”

I gesù cristi sono ostinati nel loro essere contrari, inceppano le macchine. Pasolini osservava la società, gli uomini e le loro azioni, faceva connessioni, smascherava le intenzioni senza aver bisogno di prove, preconizzava i nuovi fascismi e le nuove schiavitù, le mutazioni del potere che si impossessava dei corpi in modi nuovi, insinuandosi nei loro desideri. Pasolini divideva la vita con i dannati terreni che altri chiamavano sottoproletari, ma nessuno chiamava per nome: “Voglio dire fuori dai denti, io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi.” Io credo che anche Cristo fosse uno che scendeva all’inferno e che non metteva etichette sulle azioni altrui: “Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere sul delitto la vostra bella etichetta.”

I gesù cristi terreni sono tutti poeti nella misura in cui amano disperatamente la vita con una intensità tale che inevitabilmente ne rimangono bruciati. E amano gli uomini pure perché li vedono allo stesso modo innocenti, allo stesso modo colpevoli: “Ma io dico che in un certo senso tutti sono deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere.”

I gesù cristi odiano altrettanto intensamente, percuotono i complici del potere, rovesciano i banchi nei templi. Eppure sono sempre, nell’espressione violenta di quell’odio, “pieni di puntuale amore”. Non importa tanto che siano figli di Dio. Forse, come scrive Kurt Vonnegut in quel suo bellissimo passo di Mattatoio n 5, “Gesù era veramente un uomo qualunque, e una seccatura per un sacco di gente che aveva relazioni più importanti delle sue. E diceva anche lì tutte le cose belle e imbarazzanti che diceva negli altri Vangeli. Così un giorno la gente si divertì a inchiodarlo a una croce e a piantare la croce nel terreno. Non ci sarebbero state ripercussioni, pensavano quelli che l’avevano linciato. […] E poi, un momento prima che questo “nessuno” morisse, i cieli si aprirono e mandarono tuoni e lampi. Dall’alto scese stentorea la voce di Dio. Dio disse alla gente che adottava quel barbone, dandogli i pieni poteri e i privilegi di Figlio del Creatore dell’Universo per tutta l’eternità. Ecco quello che disse: D’ora in poi Egli punirà orribilmente chiunque tormenterà un barbone senza relazioni importanti.” Forse Pasolini non era un gesù cristo, ma sicuramente era un poeta “e – come disse Moravia al suo funerale – di poeti ne nascono tre o quattro in un secolo”.



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