Hannah Arendt
7 minuti per la letturaDI recente ho parlato con un uomo, un padre di famiglia con tre figli, una moglie, un gatto. Quell’uomo era profondamente timoroso del Male, cui dava il nome di Satana. Satana era per lui un’entità fisica presente e distinta. Satana, diceva, ti induce in tentazione, ti convince a compiere azioni malvagie perché vuole che il male trionfi nel mondo e tu sei il suo strumento. Io lo vedevo guardarsi intorno come se Satana potesse entrare in casa da un momento all’altro dalla sua solida porta di legno massello.
Chiedersi ciò che è bene e ciò che è male è una delle questioni che ci caratterizzano come esseri umani. Chiedersi ciò che è bene e ciò che è male è poi, fondamentalmente, chiedersi se nella nostra esistenza abbiamo partecipato al male e in che misura.
Hannah Arendt, pensatrice e teorica politica delle più note e sovversive del 900, ebrea tedesca prima, apolide dopo le leggi e le persecuzioni razziali in Germania, cittadina americana poi, allieva di Husserl, Jaspers e Heidegger, ha vissuto un’epoca in cui la nettezza della distinzione tra il bene e il male avrebbe potuto essere palese e scontata, in cui Satana avrebbe potuto avere un corpo, un volto, delle parole, una consistenza. E non solo uno, ma centinaia, di migliaia di volti, pronti e determinati a consegnare il mondo al Male e al caos.
Nel 1961, Arendt, già nota per il suo capolavoro Le origini del totalitarismo, decise di seguire per il New Yorker, il processo in Israele a Eichmann, uno dei gerarchi nazisti che più avevano responsabilità nell’organizzazione e nella corretta ed efficiente gestione della macchina di sterminio nazista. Aveva parlato nel suo libro precedente di un male assoluto, un male radicale, che si era compiuto nel disegno dei totalitarismi. Andava quindi a guardare negli occhi uno degli esecutori principali.
Questa è la descrizione che fece di lui: “un uomo di mezza età, di statura media, magro, con un’incipiente calvizie, dentatura irregolare e occhi miopi, il quale per tutta la durata del processo se ne starà con lo scarno collo incurvato sul banco […]” Arendt negli occhi di Eichmann vide il vuoto. Satana al mio padre di famiglia sarebbe sembrato alquanto deludente. Sono piuttosto convinta che il male nella nostra epoca abbia molto a che fare con la paura del vuoto. Per Eichmann era crollato tutto ciò che nel recente passato lo aveva riempito: l’ideologia nazista, la convinzione della superiorità della sua razza, lo scopo finale, perseguito con dedizione e impegno. In quel momento, durante il processo che avrebbe dovuto decretare l’enormità e la grandezza del suo Male, quell’uomo piccolo e spento aveva in sé nient’altro che vuoto, quello da cui aveva cercato di scappare da tutta la vita.
Al netto del fanatismo o dell’interesse personale, la paura del vuoto e la relativa tendenza a volerlo riempire è oggi una delle più grandi motivazioni a compiere ciò che è male, o a tollerarlo, come nel passato lo era stato per l’avvento dei totalitarismi. I totalitarismi del 900 si basavano su ideologie. Le ideologie erano nient’altro che narrazioni coerenti. Potenti e solide interpretazioni del mondo e dell’uomo che riempivano ogni vuoto, grazie alla coerenza logica tirata mortalmente fino all’estremo. Questo si traduce necessariamente nella costruzione di una realtà fittizia.
Ed ecco che il problema umano della distinzione tra bene e male s’intreccia indissolubilmente con quello della distinzione tra ciò che è vero e ciò che è falso, un altro punto che connota la nostra società attuale e su cui i totalitarismi avevano già agito con successo: “Il risultato di una coerente e totale sostituzione di menzogne alla verità non è che ora le menzogne saranno accettate come verità e che la verità sarà denigrata come menzogna, ma che il senso grazie al quale ci orientiamo nel mondo – e la categoria di verità versus falsità è tra i mezzi mentali che servono a tal fine – viene distrutto.”
Il problema di ieri, oggi amplificato dalla frammentazione della verità ad opera di internet e dei social media, mezzi che veicolando sia verità fattuali che opinioni danno l’idea che si equivalgano, è che gli individui hanno perso la capacità di orientarsi da sé, di autodeterminarsi: “si lasciano convincere non dai fatti, neppure dai fatti inventati, ma soltanto dalla compattezza del sistema che promette di abbracciarli come una sua parte.”
Oggi le ideologie identitarie, le teorie del complotto, non offrono tanto convinzioni, quanto consolazioni: offrono una narrazione del mondo confortante da cui non si viene esclusi. Il problema di questo mondo non è il troppo vuoto, ma il troppo pieno: la “saturazione degli spazi” fisici, virtuali e mentali, per dirla con un’espressione del giurista Gustavo Zagrebelsky.
I totalitarismi di ieri, i meccanismi di propaganda politica e commerciale di oggi, hanno il medesimo fondamento: si basano sull’atomizzazione della società, sulla sua scomposizione in individui isolati, privati della loro sfera di azione sociale e politica che viene rappresentata come inutile e destinata alla frustrazione: “Quel che prepara così bene gli uomini moderni al dominio totalitario è l’estraniazione.”
L’individuo per il quale la distinzione tra realtà e finzione non esiste più è un individuo che aderirà a una costruzione narrativa coerente, pur se non fondata sulla realtà, oppure, semplicemente, sceglierà di non voler scegliere affatto, di non voler giudicare, di tollerare il male.
Dopo aver vissuto esperienze che l’hanno colpita come membro di una comunità e come individuo nella sua propria vita, Arendt ha concluso che il pensiero nasce dall’esperienza vivente, ossia nasce dal fatto che, toccati o travolti da eventi nella nostra vita, abbiamo voluto “comprenderli”: “Siamo contemporanei fin dove arriva la nostra comprensione. Se vogliamo sentirci a casa in questo mondo, anche al prezzo di sentirci a casa in questo secolo, dobbiamo cercare di partecipare al dialogo interminabile con l’essenza del totalitarismo.”
Se vogliamo uscire dall’estraniazione e dall’impotenza, se non vogliamo partecipare alla banalità che perpetua il male, allora dobbiamo prenderci la responsabilità di comprendere ciò che accade nella nostra epoca e questo significa assumersi la responsabilità del nostro mondo. A quel padre di famiglia timoroso di un Male esterno, assoluto e maligno, avrei voluto rispondere con la definizione del male di Arendt, che “non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso “ ‘sfida’ […] il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale.”
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