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Zadie Smith

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Ogni epoca, come ogni persona, ha bisogno di qualcuno che la osservi per quello che è, che le conceda il beneficio dell’amoralità, della visione aperta, vasta, curiosa, priva di pregiudizi sul passato, priva di aspettative sul futuro. Uno sguardo che la riveli ai suoi stessi occhi, la restituisca a se stessa così com’è, senza giudizi, senza pietismi, senza condanne e senza assoluzioni. Questo sguardo ha due caratteristiche fondamentali: la curiosità e l’accoglienza. Sono entrambe caratteristiche legate fortemente all’esperienza individuale e concreta, non tollerano costruzioni mentali, non reggono ideologie. “L’arte – diceva Nabokov – non ha alcuna importanza per la società. È importante soltanto per il singolo, e soltanto il singolo lettore è importante per me.”

Lo sguardo di Zadie Smith conserva sempre questo suo effetto di svelamento, qualunque sia l’oggetto della sua osservazione. “Zadie Smith può scrivere su qualsiasi cosa” ha detto una volta David Remnick, direttore del The New Yorker su cui Smith scrive da molti anni. “Da Barack Obama alla musica di Joni Mitchell. Zadie Smith è una benedizione non solo per il New Yorker, ma per la lingua stessa”.

Quando Zadie Smith, scrittrice di padre inglese e madre giamaicana, vissuta nel quartiere operaio e multietnico di Brent per tutta la sua giovinezza, va a studiare al King’s college di Cambridge, scrive un racconto di venti pagine che poco a poco, cresce, si amplia, chiede spazio. Questo racconto, insieme ad altri suoi scritti viene notato da un editore che le propone un contratto per un futuro libro. Accade allora un evento piuttosto eccezionale nella storia dell’editoria mondiale: sulla base delle sole prime vividissime ottanta pagine del libro di Zadie Smith, il futuro Denti bianchi, vincitore di molti premi letterari, viene compiuta un’asta editoriale cui partecipano moltissime case editrici disputandosi con accanimento un romanzo non ancora compiuto.

Al di là del valore di Denti bianchi, uno dei più importanti esempi di quello che il critico inglese James Wood ha definito realismo isterico, ossia una forma di scrittura viva, bulimica, fagocitante, piena, esigente, iperattiva, digressiva, nervosa, ariosa, in cerca di attenzioni, dispensatrice di emotività dolorosa e autoironica, sinceramente teneramente disperata, di cui sono esponenti anche Forster Wallace, Don DeLillo, Dave Eggers, Jonathan Franzen, Joyce Carol Oates, quello che i diversi editori all’asta cercavano di ottenere per sé era in realtà lo sguardo rivelatore di Zadie Smith, quella sua incredibile capacità di attirare l’attenzione delle cose su se stesse, di illuminare il mondo e mostrarlo a sè, senza farlo sentire nudo, immondo, osceno.

Dopo l’esordio con Denti Bianchi, Zadie Smith ha scritto molti altri romanzi, raccolte di racconti e di saggi personali, sociali e letterari, insegnato ad Harvard, alla Columbia, alla New York University. La sua scrittura, narrativa o saggistica, offre a qualsiasi cosa che ne sia oggetto, come un dono, la sua stessa identità, con questo suo modo semplice e misterioso di resuscitare il vivente, far vivere ciò che già esiste.

Per quanto tratti principalmente di argomenti come la società multietnica, l’integrazione o il disprezzo razziale, la ricerca dell’identità, le conseguenze degli estremismi, Zadie Smith non crede nella natura morale della letteratura: “La letteratura non può pianificare cambiamenti, ma nella mia esperienza di lettore, la letteratura allarga il raggio di attenzione e questo a volte può farci reagire in modo più etico nei confronti di ciò che accade nel mondo. […] Ma non c’è garanzia. Anche i nazisti leggevano “Anna Karenina” e ascoltavano Bach. Mai sopravvalutare l’effetto civilizzante delle arti liberali”. Crede però nella natura internamente plurale di ciascun essere umano recante in sé infinite possibilità di sviluppo che possono essere coltivate o soppresse, a seconda della classe sociale in cui nasce, della visione del mondo in cui viene cresciuto dalla politica, dai media, dall’arte: “Il mio mestiere, così com’è, concerne le vite intime delle persone. Quelli che mi interrogano sul “fallimento del multiculturalismo” vogliono insinuare che non solo è fallita un’ideologia politica, ma gli esseri umani stessi sono cambiati e ora sono fondamentalmente incapaci di vivere insieme pacificamente a dispetto delle loro tante differenze. In questa tesi è lo scrittore che fa la figura del bambino ingenuo, ma io sostengo che sono proprio le persone che credono in cambiamenti fondamentali e irreversibili della natura umana a essere antistoriche e ingenue. Se c’è una cosa che i romanzieri sanno è che i singoli cittadini sono plurali internamente: contengono in loro l’intera gamma delle possibilità comportamentali. Sono come spartiti musicali complessi, da cui è possibile estrarre certe melodie e ignorarne o sopprimerne altre, a seconda, almeno in parte, di chi è il direttore d’orchestra. In questo momento, in tutto il mondo — e più recentemente in America — i direttori di questa orchestra umana hanno in mente solo le melodie più grette e banali. […] Ma non c’è posto sulla Terra in cui non siano stati suonati, in un momento o nell’altro. Quelli di noi che ricordano anche una musica più bella ora devono cercare di suonarla, e incoraggiare gli altri, se ci riusciamo, a cantare insieme a noi.”

In questo contesto umano in cui si intrecciano elementi caotici, complicati, incerti, cangianti come sono “la lingua, il mondo e l’io”, la scrittura per Smith si colloca nel punto di intersezione tra di essi: “La prima non mi appartiene mai del tutto; il secondo lo posso conoscere solo parzialmente; il terzo è una reazione malleabile e improvvisa ai primi due.” Nelle maglie di congiunzione tra linguaggio, società umana e io individuale, la letteratura cerca faticosamente di esprimere quei minuscoli punti di giuntura di autenticità del reale e lo fa nel suo modo parziale, umano e imperfetto. È proprio l’inevitabile imperfezione di tutte le cose che Zadie Smith riesce a vedere così bene nelle sue opere e soprattutto riesce a mostrarla intonsa da tutti i tentativi di copertura e di mistificazione, nella sua disarmante autenticità consolatoria: il nostro essere noi stessi e nessun altro, l’aver vissuto quel periodo storico e nessun altro, quel determinato momento e quel determinato luogo è la nostra unica verità, la sostanza della nostra identità di individui, di membri di una famiglia, di un gruppo etnico, di uno Stato, del mondo.



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