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Jamaica Kincaid

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Quello della maternità è il più carnale dei concetti. Non si può pensare la maternità senza passare per quello stretto, viscoso, umorale canale che ne è il tramite. Qualunque pensiero venga pensato sull’argomento non sarà mai solo pensiero, non aereo, metafisico, ectoplasmatico.

La maternità è carne, quella di chiunque abbia generato o sia stato generato. Quindi quella di chiunque. La maternità è anche il più sentimentale dei nodi del pensiero umano, nel bene o nel male, nella presenza o nella mancanza, nel desiderio, nel rimpianto, nella vendetta. La maternità è il più fisico dei rudimenti umani: è riempimento e svuotamento, turgore e squarcio, calore corporeo e liquido scorrere di fluidi, dono e ferita mortale.

La maternità è il tema che irrora ogni parola dei libri di Jamaica Kincaid. Ma essa non è solo maternità biologica, non si esaurisce nello stretto cerchio di un utero. Pervade esseri animali e vegetali, terra e cielo, nazioni conquistate e conquistatrici, dominatori e dominati. Lo squarcio dell’essere dato alla vita per morirne è lo stesso se accade tra le pareti di una vagina o circondati dai grumi terrosi di una zolla di prato.

Ma anche quello che attribuisce una patria a chiunque venga alla vita in un qualsiasi luogo terrestre. Madre di un nuovo essere non è solo l’insieme di cellule che l’ha prodotto ma l’intero mondo circostante, responsabile della sua maternità al pari di chi l’ha generato.

Così la scrittrice Jamaica Kincaid quando parla di maternità, nella pagine più belle e dure dei suoi libri più belli e puri, non parla mai solo di madri, ma anche di madrepatrie. E ad averle inflitto la ferita mortale della vita non è stata solo sua madre biologica, ma anche St. John’s, la minuscola isola dell’arcipelago dei Caraibi, dove un giorno del 1949 è nata, nel sole crudele e rovente.

“Mia madre è morta nel momento in cui nascevo, e così per tutta la mia vita non c’è mai stato nulla fra me e l’eternità; alle mie spalle soffiava sempre un vento nero e desolato”, nell’incipit di Autobiografia di mia madre, il libro più importante di Kincaid, è racchiusa l’intera sua poetica. La nascita è già una disillusione. L’assassinio di sua madre, di tutte le sue madri, quelle di carne e quelle di terra, la sofferta, deliberata, rabbiosa e necessaria lacerazione dei paradisi perduti, dell’illusione dell’amore nell’infanzia e dell’illusione del possesso della propria terra, sono le leve che hanno fatto trovare a Kincaid le sue parole di scrittrice, nella lingua dei dominatori del suo popolo, quell’inglese cui, insieme a tanti scrittori della “periferia dell’impero”, ha dato nuova vita, nuovi sentimenti che non avrebbero potuto mai essere provati ed espressi in una lingua appartenuta solo a conquistatori.

La rabbia e il sentimento di oppressione con cui Kincaid guarda alla bellezza corrotta della sua terra madre nascono dalla sua indomabile capacità di vederne il vero volto, di non poter lasciarsi illudere. La “madre” di Kincaid è morta, perché a un certo punto è stata costretta ad ucciderla. Davanti a lei c’era, da quel momento in poi, solo un precipizio la cui vista nessuno più le copriva. Dietro di lei soffiava “un vento nero e desolato”, quello che l’aveva portata fino a lì sulle spalle di generazioni di uomini e donne, madri e padri, suoi antenati. Esseri umani strappati con il rapimento e la violenza dall’Africa, oppure nativi di quelle terre, sterminati e dominati da uomini europei, nati in posti grigi e lontani, di là dal mare. I venti della storia hanno condotto Kincaid nella “stanza nera del mondo” da dove lei ha saputo dare una visuale perfetta e disincantata non solo sulla sua terra, ma anche sulla terra di origine dei suoi usurpatori. Quando si trasferirà, appena sedicenne, a lavorare a New York, sarà costretta a sentirsi, non solo una donna cariba, ma anche una nera africana e afroamericana, conoscendo una nuova sfumatura di dominio: il razzismo violento e fisico, oppure endemico, segregazionista e culturale di quei luoghi. Tuttavia, Kincaid in America riprende gli studi, inizia a lavorare per Il New Yorker, pubblica racconti bellissimi, luminosi e crudeli, che lasciano critici e pubblico incantati e feriti, e diventano poi il suo primo libro In fondo al fiume, che farà esclamare al premio Nobel Derek Walcott: «Questo libro canterà sul vostro scaffale. È troppo soffocato d’amore per suscitare invidia, troppo umile per gli encomi, e tuttavia è così impressionante da non poter eludere lo stupore». Kincaid pubblica numerosi altri libri, Annie John, Lucy, Autobiografia di mia madre, vince molti premi. Nel 2020 è candidata al premio Nobel per la letteratura, che però andrà a Louise Glück. Insegna scrittura creativa all’Università di Harvard.

Il suo stile è impetuoso, forte e pieno. Lucido e rabbioso, carnale, fisico e umorale, a volte in misura disturbante. In altre, evocativo e lirico, fino a toccare il confine con il linguaggio poetico. I suoi temi sono quelli del riscatto dalla ferita della sua origine, la ferita dell’amore materno dato e poi rifiutato, e da quella del colonialismo della “madrepatria” inglese, dove “rifiuti umani provenienti dall’Europa […] facevano uso di esseri umani provenienti dall’Africa […] per soddisfare il loro desiderio di ricchezza e di potere, per riscattare la propria esistenza infelice, per essere meno soli e vuoti: una malattia europea”, della ricerca di una identità, che non sia geografica, etnica, culturale, ma sia unicamente propria e vera. Perché la verità è la cifra della sua scrittura, una verità impetuosa, solitaria e impietosa, che Susan Sontag definirà “veridicità emotiva”, e che Kincaid stessa, in un’intervista, dirà necessaria e, il più delle volte, antitetica alla ricerca della felicità: “Io penso che la vita sia difficile e questo è quanto. Io non sono per nulla – assolutamente per nulla – interessata alla ricerca della felicità. Non sono interessata alla ricerca della positività. Io sono interessata alla ricerca della verità, e la verità spesso sembra non essere la felicità ma il suo opposto.”

“[…] essere messo al mondo non è mai responsabilità di nessuno, la decisione non è mai la nostra”, la maternità è l’idea che partorisce ognuno di noi, che partorisce il mondo. È schermo, consolazione, protezione, alibi. A volte, rifiuto, abbandono, ferita insanabile e sottrazione. È un’idea sempre di qualcun altro, che abita un diverso spazio di mondo, una diversa coscienza, ed è con quell’idea incarnata, “di una perdita e di un guadagno”, di “un indietro e un avanti” che dobbiamo convivere da un momento in poi e per tutta la vita.


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Francesco Ridolfi

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