Saverio Strati (Sant'Agata del Bianco, Reggio Calabria, 1914 - Scandicci, Firenze, 2014)
9 minuti per la letturadi SAVERIO STRATI
SEI stanco e avanti negli anni. Sei solo come la luna, da tempo ormai. Siedi spesso accanto alla finestra, come quei vecchi che non hanno più nulla da aspettarsi dalla vita e guardano fuori per vedere quello che succede nella strada ed è come seguire un film infinito e monotono. Fissi il cielo senza però scorgervi niente: né rondini, né colombi, né nubi vaganti. Non vedi le cime dei monti laggiù in lontananza, non dai importanza al vocio e al rumore che sale dal marciapiede sempre animato. Sei lontano mille miglia dalla tua grande casa silenziosa e spettrale. Guardi dentro di te con tutti i tuoi occhi, anche con quelli della mente, per rivisitare il passato che ti vive intiero.
Quante case magnifiche hai abitato! Quante ne hai progettate! A giorni ti assale il bisogno di descriverlo, il tuo passato; ma non lo fai. Lo vivi, ti vive; e questo ti blocca. A giorni la tua mente è come un deserto assai più ampio del cielo e il mondo è vuoto e senza suoni e rumori e voci; ma un tratto accade che ti si desti e mandi un improvviso bagliore, un guizzo di luce accecante. Ti sorge un improvviso pensiero che in altri tempi ti saresti affrettato a fissare alla svelta su un qualsiasi foglio di carta. Ce ne sono di fogli di carta riempiti dai tuoi parti improvvisi e per te abbaglianti! Ora non hai la forza e tanto meno la voglia di farlo. Lo fisserai più tardi, ti dici. Bada che corri il rischio di dimenticare quello che provvidenzialmente ti è sorto in testa e che come un baleno ha illuminato il buio del tuo animo… Lo farò più tardi; ora no. Non ti decidi infatti a prendere la biro che pure ti sta davanti, ora che ti sei seduto al tavolo.
Apri invece un vecchio giornale; vi scorri i titoli a grosse lettere, senza però raccoglierne il significato allarmante della notizia principale stampata su cinque colonne per la fuga di una nube tossica che vaga per i cieli del mondo. Butti infastidito il giornale lontano da te come fosse qualcosa di contagioso e riprendi a fissare il cielo di un azzurro quasi irreale. Hai l’impressione, anzi la certezza, di vedervi l’immagine di Gina al tempo in cui era incinta e stavate in vacanza nel villaggio industriale a trenta chilometri da Milano dove avevate una casa. La casa del riposo, del silenzio e dei giochi.
Era così bella, Gina, così affascinante: come vaporosa per via della sua maternità avanzata. Ti ripassi i giochi verbali, quasi crudeli e certo infantili, che compivate insieme. Scrolli con dolore la testa e ti sforzi di soffocare un singhiozzo che irrefrenabile ti sale in gola. Ti alzi e ti muovi per la casa muta da far paura… Sei assalito dal rimorso del tempo che vola senza che tu ne tragga alcun profitto.
Cosa vive a fare un uomo se non s’impegna in un lavoro concreto! Lavorare è vivere, avere pace con la propria coscienza; pensare, anche pensare è vivere. Prendi un importante testo di filosofia antica per rileggervi delle pagine che nel passato hai sottolineato. Lo apri, vi scorri rapido le pagine che in gioventù ti avevano esaltato. Ora le trovi fiacche, quasi insulse. Forse perché le conosci; forse perché hai imparato altre cose; forse perché il tuo spirito è deluso e stanco. Chiudi il libro e lo scosti da te con un gesto annoiato del braccio…
Gemma non ti ha telefonato; né tu a lei. Non v’interessate più; eppure potrà accadere che vi sposiate. Le cose, dopo quello che è avvenuto fra te e Luisa… Luisa ha avuto un figlio non tuo che ha portato il tuo nome. Saresti però rimasto con Luisa, se avesse voluto. Ma Luisa disse di no; un no duro come il granito. Ha preferito il giovane americano e ora vive a Boston… E la filippina? La filippina è scappata via da te anche lei, ingannandoti disonestamente. Si è portata dietro il tuo unico vero figlio che non vedrai mai più. Che destino il tuo! Di vivere per qualche anno con le donne, schermeggiando con parole velenose e inconcludenti.
Anche con Gemma è la stessa solfa. Le cose sono andate avanti in modo tale, ormai da anni, che non ti riuscirà di sottrarti all’impegno morale. Gemma però rifiuta l’impegno morale. Soffre di questo vostro rapporto sgangherato. Vive un’ansia continua che alla fine l’annienterà. La settimana scorsa, quando ti recasti a trovarla nella sua bella casa che tu le hai disegnato e messa a posto, è scoppiata a singhiozzare. Questo ricordo ti turba parecchio.
Riprendi a passeggiare su e giù per il vasto appartamento pieno di oggetti di pregio e di quadri di valore; pieno di libri e di foto di palazzi antichi e moderni, di ponti e di autostrade costruiti da architetti celebri, qualcuno tuo amico. C’è qualcosa di tuo fra quelle foto: un carcere e una chiesa eretti in Lombardia. Il carcere ha il respiro di uno stadio, aperto e spazioso; la chiesa è come una persona raggomitolata in se stessa, con delle finestrelle che sembrano occhi senza bulbo, con la facciata che ha l’aria di un vagabondo in cerca di qualcosa a cui legarsi. I critici scrissero di quella chiesa che sembrava più una prigione che la casa di Dio, più un luogo di tortura che un luogo di preghiera e di riscatto. Non ti hanno capito! La chiesa infatti è un luogo di espiazione, secondo la tua filosofia, e non già una gita di palagio; e il carcere è un luogo di riscatto e quindi di elevazione. Il professore Capaci ti aveva capito e apprezzato; gli altri no.
Dondoli il capo come chi è scontento di tutto. Hai bisogno di Gemma. Chiudi gli occhi per mettere a fuoco la sua immagine; ma, con tua sorpresa, non ti riesce di vedere nitida- mente il viso di Gemma: gli si sovrappone quello di Gina nel giorno in cui, dopo una delle solite schermaglie verbali, lei uscì in macchina per fare delle compere a Milano e per dare un’occhiata all’appartamento di una sua amica per l’arredamento. Gina s’interessava di arti applicate. La vedesti partire e provasti una fitta insolita, quel giorno. Avvertisti, ma non capisti. Avvertiamo, ma non capiamo se non a cose avvenute. Gina non tornò più a casa, nella nostra casa del Villaggio industriale a trenta chilometri da Milano. Un TIR la scontrò frontalmente a tutta velocità e la ridusse in una poltiglia irriconoscibile; e tu, nel vedere quel grumo di sangue e carne e ossa e polvere, sentisti rompersi nel tuo profondo un filo mastro; un filo che non poteva più saldarsi… Per vedere chiara l’immagine di Gemma, che fin dal primo incontro ha fatto sempre pensare a Gina (e lo stesso vale per Luisa) devi guardare la sua foto. Com’è strano! Eppure è da anni che v’incontrate quasi ogni giorno.
L’altra volta, dunque, a casa sua, dopo la solita conversazione che tradiva la consunzione del vostro rapporto, mentre singhiozzava, tu la fissavi, senza ascoltare le sue parole gravide di dolore. Osservavi il suo viso invecchiato precocemente e ti dicevi: Quanto mi piacerebbe essere lontano da questa città! Chi sa come sarebbe bello ambulare per i viali di Parigi… Ma perché non vai ad Addis Abeba? Ti hanno chiesto di progettare qualcosa d’importante, in quella città. Cos’era? Una chiesa cattolica o musulmana? Cristo parlava l’aramaico; in Etiopia si parla l’aramaico. «A cosa stai pensando?» ti chiese all’improvviso Gemma e ti fissò con gli occhi febbrili. Ti sentivi e ti senti prigioniero di te stesso, ogni volta che ti rivolgevano e ti rivolgono questa insopportabile domanda. Tutte le tue donne insistevano con questa domanda, senza mai percepire il sussulto che ti provocava e ti provoca nelle viscere. Ti dicevi che non si è liberi di pensare, di sorridere con se stessi, di fare un gesto provocato dal dialogo che stai facendo con l’altro te stesso che sta accucciato dentro di te e sa tutto di te, anche le cose da venire, quando sei legato a una donna che avanza su di te i suoi diritti.
Non si è liberi, quando si sta insieme a un altro individuo, anche estraneo e senza diritti. Soltanto quando si è soli e silenziosi si è liberi: quando si guarda nel lago del nostro essere con gli occhi rivolti all’indentro. A pensarci bene non si è mai del tutto soli. C’è qualcuno che ti controlla, che ti giudica, che ti rampogna: la coscienza. Essa è sempre desta, attenta, pronta e coraggio- sa a rimproverarti le tue bassezze, le tue debolezze e falsità e vigliaccherie. La coscienza non si lascerà mai turlupinare dalle false e sciocche giustificazioni propinate, inventate dalla ragione bacata.
È la tua Sibilla, la tua Madonna; e quando sbagli scatta offesa e infuriata e ti rimbrotta impietosa e tu stai zitto e cheto e moscio come un bambino impaurito e affamato. Uggioli pietosamente come una cane preso a legnate e a calci e ti dici: non lo farò più. Ho sbagliato, perdonami! «Ti sto ascoltando», mentisti. Gemma capì che mentivi e s’inviperì come mai le era accaduto. «Tu non hai ascoltato una sola parola di quello che ho detto in mezz’ora che parlo. Se non ti garbo più, è inutile incontrarci. È inutile recitare il falso» strillò. «Ma perché ti arrabbi, scusa, se io non so rispondere alle tue difficili domande?» «Ah! Sicché le avevi udite le mie domande!» «Certo, Gemma». Dicesti Gemma con dolcezza, a voce piena; ma eri lontano da lei. «Scusami. Ti vedevo così pensieroso!» E dopo una pausa, durante la quale avevi mandato un respiro liberatorio: «E allora? Cosa rispondi alle mie domande?». Non sapevi proprio che domande avesse fatto. Chiudesti gli occhi come per riflettere, ma era per prendere fiato. Infine inventasti: «Come si fa a rispondere alle tue domande? Nessuno è in grado di rispondere alle tue domande. Nessuno. Nemmeno Kant, o Cristo in persona». «Che c’entrano Kant e Cristo?! La mia domanda era di una semplicità, di un’ovvietà vergognosa». «Ma cosa di preciso mi hai chiesto, scusa? Non parlavi dell’anima, del sito dell’anima?» «Guarda che tu mi stai confondendo con un’altra donna che ti ha fatto quella domanda sull’anima e il suo sito… Io ti ho chiesto ben altro, di molto più elementare…».
Avvertisti dentro il tuo orecchio la voce di Gina che il giorno prima che morisse ti aveva parlato del sito dell’anima. C’è stato mai qualcuno, filosofo, teologo, grande scienziato, che sia stato capace di descrivere la forma dell’anima, il suo sito dentro il nostro corpo? […]
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