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Giuseppe Lupo

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Ragionare seriamente attorno al Sud, slegandosi dalle maglie del lamento e dell’autocommiserazione, non basta più, bisogna iniziare a praticare l’impensabile, la chiave dell’utopia che stravolge l’immobilità.

La storia senza redenzione – Il racconto del Mezzogiorno lungo due secoli (Rubbettino Editore) di Giuseppe Lupo, scrittore e saggista, professore di Letteratura Italiana contemporanea presso l’Università Cattolica di Milano e di Brescia, è un libro che restituisce credibilità alla visione meridionale, in attesa di scontrarsi col mondo attraverso una progettualità di riscatto.

Se, come nota, la letteratura ha taciuto sull’emigrazione nel Dopoguerra, ora c’è la possibilità che inizi un processo inverso, attraverso il ritorno alla vita contadina e alla riscoperta dei borghi. La relazione tra letteratura ed ecologia non rischia di aprire un filone neo arcadico e dunque di essere un mero fattore di tendenza?

«Considero il tema del ritorno nei borghi e nelle aree interne una tendenza fuorviante e pericolosa, che francamente sa di retorica. È un po’ come l’atteggiamento del cittadino europeo che nel Settecento si invaghiva del mito esotico del “buon selvaggio”. Veniamo da una cultura novecentesca che ci ha educati all’icona dell’urbanesimo come luogo della civiltà e della modernità, adesso invece, in forma contraddittoria, ci rimangiamo tutto. Se le aree interne e i borghi si sono svuotati nei decenni, vuol dire che gli abitanti giudicavano entrambi invivibili. Il loro ripopolamento potrebbe essere un aspetto determinante del periodo post-pandemico, ma occorrerebbe dotare quei luoghi di tutti i fattori per i quali chi ci abita non avverte la sensazione di essere una umanità ai margini, Mi riferisco a servizi, sanità, trasporti».

Evidenzia più volte che il problema di una mancata progettualità nel Mezzogiorno, in politica come in letteratura, sia tuttora riscontrabile nell’assenza o nel deperimento di un corpo intermedio e nella fragilità disorientante dell’intellettuale. Cosa bisognerebbe fare, di urgente, per riconnettere questo tessuto indispensabile alla comunità?

«Bisognerebbe uscire dagli stereotipi interpretativi, dei quali, spesso, gli intellettuali sono rimasti prigionieri, dimostrando di non saper o non voler andare oltre la vulgata. Il primo compito che un intellettuale dovrebbe proporsi è quello di distinguersi dal coro, non in nome di una originalità forzata, ma nel tentativo di comprendere i fenomeni e trovarne le ragioni. Esiste una responsabilità etica dell’intellettuale che gli impone di non fermarsi mai all’apparenza, di non scegliere mai la via più frequentata, impegnandosi a guardare di più e meglio di chi gli sta intorno. Poi spetta a lui averne le capacità».

Adriano Olivetti e Leonardo Sinisgalli hanno provato a riscattare il Sud. Oggi riuscirebbe a indicarmi dei nomi con la stessa capacità visionaria?

«Difficile pensare a imprenditori o manager che nel Mezzogiorno abbiano la stessa visione di Olivetti o di Sinisgalli. Ci sono certo intellettuali in grado di spostare l’asticella più avanti, ma sono purtroppo soverchiati dal coro di voci univoche, che pronunciano tutte la stessa verità senza chiedersi se poi sia vera. Quel che manca, secondo me, è la capacità di avere uno sguardo dilatato nei fenomeni che hanno accompagnato il Mezzogiorno almeno negli ultimi centosessant’anni, una capacità di mettere in relazione elementi in apparenza lontani. Manca la progettualità che è figlia di una dimensione costruttiva».

Non crede che le periferie meridionali, superando in parte il tema della denuncia e della criminalità, siano ancora oggetto di profonda indagine letteraria? Sulla scia cinematografica e televisiva mi vengono in mente Dogman (Garrone, 2018) e Che ci faccio qui di Domenico Iannacone.

«Le periferie meridionali (come sempre i luoghi di confine) possono essere un grande laboratorio a cielo aperto proprio perché accolgono, mescolano, dialogano. Torniamo al discorso di prima: è un problema di scelte narrative. Se si vuole rimanere nello stereotipo che buca lo schermo, basta rappresentare le periferie come il luogo dell’inferno. È quello che il mercato chiede e non c’è nulla di più facile che obbedire a questa logica confermativa: tu vuoi sentir dire che il Sud è malavita e io te lo confermo, tu non fai alcuno sforzo interpretativo e sei contento che un libro, un film ti abbiano dato ragione. Ma non si esce dal mangiarsi la coda».

Carmelo Bene scriveva: “È il Sud in perdita. Il suo guadagno. Anche se umiliato, oltraggiato, vilipeso dalla sciagurata inflazione consumistica, è ancora qui. […] A questo Sud azzoppato, non resta che volare”. Può essere questo un diverso sguardo narrativo da intraprendere per raccontare il Sud?

«Nel mio libro l’ultimo capitolo si intitola “Il sogno della Storia”. È qualcosa che non dista molto dall’invito di Carmelo Bene. La Storia è il racconto di ciò che è accaduto, ma qualcosa, per accadere, deve essere prima immaginata, sognata, progettata. Il Mezzogiorno, se vuole uscire dalla cronaca e tornare a essere epico, dovrebbe adottare questa formula».

Come immagina il Sud tra cinquant’anni?

«Non è facile rispondere. Dipende dalla capacità progettuale che però è figlia di competenze, cioè di elaborazione culturale. Penso che molto dipenda da quanto tempo i giovani dedicheranno alla propria formazione, cioè allo studio. Per competere bisogna essere competenti».


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