Giancarlo Siani, giornalista ucciso dalla camorra nel 1985
6 minuti per la letturaLe rivoluzioni non sono sempre violente. Alcune nascono per opporsi alla violenza. Hanno bisogno di più tempo, di anni, di decenni. Ma sono quelle che poi restano, quelle che danno frutti, quelle che sarai sempre orgoglioso di aver fatto iniziare.
Vincenzo Strino era destinato a diventare un pilota dell’Aeronautica. E per un anno ha provato a seguire quella che sembrava la strada forse più facile e sicura. Poi ha lasciato tutto per ritrovarsi tra i “cronisti scalzi”, quelli a cui oggi la casa editrice Iod edizioni ha voluto dedicare una particolare collana dedicata a Giancarlo Siani, il giornalista precario de “Il Mattino” di Napoli, ucciso dalla camorra il 23 settembre del 1985.
Perché in questo mondo iperconnesso e nel quale ormai ci si deve difendere da mille informazioni e si naviga tra bufale e notizie gonfiate, ci sono ancora tanti giornalisti di periferia precari, come sottolinea nella sua nota l’editore, ma con la voglia di fare un vero giornalismo d’inchiesta, «che continuano a essere presenti sul territorio, a piedi scalzi, e che conservano la memoria, lo stile e il metodo di Giancarlo Siani», che non aspettava le notizie per riportarle, «ma cercava il meccanismo sanguinoso che le produceva».
Una collana che inizia a Secondigliano, uno dei quartieri più tristemente noti di Napoli. Inizia con “Secondi a nessuno”, del giornalista Vincenzo Strino, che in quel rione ha frequentato la scuola e la strada e ha avviato, dopo la laurea, quella rivoluzione pacifica che ora già può contare su una seconda generazione di volontari. Ma guai a etichettarlo “giornalista anticamorra”: «essere contro la camorra per me è come essere antifascista: al di là del dovere sancito dalla Costituzione, è parte della mia cultura e della mia storia. Perché se sai cosa fa la camorra, non puoi che essere contro di essa».
Secondigliano non è Scampia, rione anche visivamente identificabile nelle sue Vele. Secondigliano ha una storia differente, che inizia nel ‘500. Non ci sono palazzoni, ma case private. Qui c’era la borghesia ma, a partire dagli anni Ottanta, si scatena tra questi vicoli una sanguinosa guerra di camorra. Negli anni Novanta il quartiere si trasforma in uno dei mercati della droga più grandi d’Europa. Tra le vittime decine di giovanissimi, ragazzi che erano stati compagni di giochi in un quartiere per il quale «è paradossalmente più facile e veloce arrivare a Milano (per la presenza dell’aeroporto di Capodichino, ndr) che raggiungere il centro di Napoli».
Strino è di Secondigliano, «ma io ho sempre saputo che la mia strada non era la strada, ho sempre saputo di essere diverso. Ero figlio unico, i miei genitori avevano un’istruzione». Ma quel quartiere è il luogo della formazione, dei giochi e dei primi confronti con le ragazze. È il luogo in cui si impara che «per combattere la malavita non basta la repressione, bisogna attraversare la strada e andare oltre gli slogan».
È il luogo che sembra avere dei confini: fuori sei quello di Secondigliano. Anche quando per andare al liceo devi andare a Napoli centro, ti resta l’etichetta. «Fuori ci sono i pregiudizi, dentro lo stesso – dice Strino – ma io sapevo che quel rione lo avrei lasciato. Sono stato al liceo, poi mi sono laureato all’Università. In tanti avevano situazioni diverse e quando ci stai dentro non vedi il fuori, non sembrano esserci altre possibilità».
La scelta è tra lo scaricare sacchi di cemento, montare impalcature e spaccarsi la schiena dalle 7 del mattino alle 6 del pomeriggio per una paga tra i 70 e i 100 euro alla settimana e il guadagnare 400 euro alla settimana solo stando fermi a fare il palo nelle piazze di spaccio.
Raccontare quella realtà non è semplice. Soprattutto perché quelli di cui racconti sono i tuoi amici, ci sono i visi e le storie di chi ha fatto un pezzo di strada con te. E «non si può biasimarli, la maggior parte di loro non ha niente a casa. Le madri non possono dirgli nulla, un sacco di queste donne sono ancora bambine. Il padre è in galera e non c’è nessuno che li tenga a scuola, insegni loro il rispetto. In questo modo crescono da soli, in mezzo alla strada. E tutto ciò che imparano lo apprendono da lì. La loro famiglia è il clan e qui non vedono altro lavoro fatta eccezione dello spaccio di droga».
A un certo punto, d’istinto, nasce il La.R.Sec, Laboratorio di riscossa di Secondigliano.
«Quando abbiamo cominciato – dice – qui non c’era nulla a parte le parrocchie. Ci sono voluti anni e tantissime discussioni prima che altri capissero che il Larsec non è la solita associazione culturale che ogni tanto sfocia nel volontariato».
Cambiare richiede tempo. E richiede la capacità di capire le piccole cose: «Se il degrado e la noncuranza regnano sovrani, tutti sono giustificati ad assumere lo stesso atteggiamento distruttivo. Tutto ciò si verifica in larga parte di Napoli, ma in particolar modo dalle mie parti. Quindi, come invertire questa teoria? Da questa premessa, un giorno mi venne in mente un’idea che mi accompagna da sei anni e che si chiama Larsec».
La prima riunione del nucleo primordiale del progetto ci fu nel giugno del 2014, con un paio di amici che, a loro volta, avevano coinvolto altri ragazzi del quartiere. Si passa così dal pensiero all’azione. Si inizia in una stanzetta della chiesa dei Santi Cosma e Damiano. Si coinvolgono normali cittadini con gesti semplici come la pulizia delle aiuole o il “libro sospeso”, gli incontri con gli autori, i laboratori.
Perché «c’è fame di cultura» in quel quartiere, come in tutte le periferie degradate, in quelle dove lo Stato non entra e se lo fa è con la faccia di qualche politico che cerca i voti.
«Per questo il Larsec non ha mai cercato aiuti dalle istituzioni, dovevamo dimostrare di essere lontani da ogni partito. È scritto nel nostro atto costitutivo che rigettiamo qualsiasi rapporto con la politica». Uno Stato che si gira dall’altra parte pur sapendo che qui c’è un tasso di evasione scolastica 4 volte superiore alla media. E non si chiede perché, come recuperare questi ragazzi, come mostrare loro che ci possono essere possibilità diverse oltre quel rione dagli immateriali confini.
Al Larsec oggi ci sono ragazzi che vengono da storie difficilissime: sono la seconda generazione, «sono più agguerriti e determinati, vogliono riprendersi il quartiere e sono fiducioso che possano riuscirci».
E mentre questi ragazzi, pacificamente, provano a riprendersi il quartiere, Strino cerca di mettere un punto per ricominciare, chiedendosi perché lo Stato continui a non interrogarsi, per esempio, sul motivo per il quale in queste aree, come in tutto il Sud, «non c’è solo una fuga di cervelli, ma anche di ragazzi che finiranno per fare i camerieri a Milano o a Londra». Una bassa manovalanza, iper sfruttata e malpagata che, in altre città, almeno ha un contratto, dei diritti. È questa la strada?
«Ci vorrà una generazione – dice Strino – per cambiare l’approccio di una parte della classe dirigente a considerare quest’area come strategica. Sarà necessario mandare in soffitta l’idea del “salotto buono” della città e iniziare a considerare quella che oggi è periferia come centro. Gli interessi della città non li fanno un paio di intellettuali con una buona rete di relazioni, ma i cittadini che si mettono in gioco».
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