Ritratto raffigurante Jorge Amado (1997)
7 minuti per la letturaQuando Jorge Amado morì nella sua casa di Salvador de Bahia, il 6 agosto 2001, quattro giorni prima di compiere 89 anni, il Brasile proclamò tre giorni di lutto nazionale. Solo poco più di sessant’anni prima, il 19 novembre del 1937, davanti alla Escola de Aprendizes Marinheiros, vennero bruciati, come riportava un giornale locale: “808 esemplari di Capitani della spiaggia , 223 esemplari di Mar Morto, 89 esemplari di Cacao, 93 esemplari di Sudore, 267 esemplari di Jubiabá, 214 esemplari de Il Paese del Carnevale.” Tutte copie dei libri che Amado aveva pubblicato fino a quell’anno.
Il Brasile è stato, ed è tutt’ora, un Paese di contraddizioni violente. Un luogo del tempo e dello spazio dove convivono sincreticamente mescolanza ed esclusione, celebrazione della vitalità e repressione, carnevali dell’anima e torture dei corpi, o viceversa.
È lo stesso Paese cantato due volte da Jorge Amado che, come il protagonista di uno dei suoi racconti, Le due morti di Quincas acquaiolo, ha due storie, due realtà e due percorsi nella sua esistenza, quelli che attengono alle versioni ufficiali, riconosciute dalle convenienze, supportate dalla logica, e quelle che vivono al di sopra e al di sotto di esse: la dimensione dell’invenzione, del sentimento, della tradizione popolare, dell’immaginazione, dell’incontro, della mistura. Quincas l’acquaiolo muore due volte: una volta come si vorrebbero le convenienze, l’altra volta come vuole lui. Chi siamo noi, si chiede Amado in ogni suo libro, per decidere dove sia effettivamente la realtà?
La prima volta di Amado scrittore è, da giovanissimo, l’esordio realista de Il Paese del Carnevale. Ma il vero riconoscimento gli arriva con Jubiabá, dove il protagonista è nero e, per la prima volta nella letteratura brasiliana, vive da eroe delle sue vicende e ama una donna bianca, siamo nel 1935, gli echi razzisti e fascisti dell’Europa rimbombano in Brasile e si rifrangono sulle camice verdi di Plìnio Salgado che sfilano per le strade di Bahia. Amado, figlio di un proprietario terriero che aveva perso tutto a causa di una cattiva annata ed era finito bracciante, aveva conosciuto il Brasile bianco, post schiavismo, arroccato a difesa dei propri privilegi che vedeva minacciati da ogni dove, e aveva poi ascoltato i racconti delle piantagioni, era andato a studiare a Salvador e lì aveva girato ogni vicolo e anfratto, visitato ogni mercato e bordello del porto, “vivevo dappertutto, nel mercato di Agua dos Meninos, al mercato di Sete Portas, mangiavo sarapatel e maniçoba. Frequentavo bordelli, feste popolari, feste di strade, mangiavo pesce con i marinai.”
Ed è in quei giorni, lungo quelle strade che lui, nativo di Itabuna, diventa lo scrittore bahiano per eccellenza, (“Non ho desiderato altro che essere uno scrittore del mio tempo e del mio Paese. Non ho preteso e non ho mai tentato di fuggire dal dramma che viviamo. Non ho mai preteso di essere universale se non essendo brasiliano e sempre più brasiliano. Potrei anche dire, sempre più baiano”). Portano con sé, quegli splendidi primi libri, tutto il peso della sofferenza taciuta, dello sdegno sociale, delle morti evitabili, di lavoro e di fame, delle discriminazioni razziali. Li hanno definiti libri di denuncia sociale, libri politici, li hanno bruciati nelle piazze. È il periodo del realismo amadiano, che danza con le storie popolari, i racconti degli Orixàs, i riti sincretici, ma ne rimane a parte: i due mondi della realtà e delle storie sono ancora distinti ma si chiamano l’un l’altro.
La seconda vita di scrittore di Amado avviene dopo più di vent’anni dalla prima. Si sono succeduti, in quel lasso di vita dello scrittore, molti rovesciamenti di potere, la Academia dos Rebeldes contro la letteratura tradizionale assuefatta e condiscendente, molti arresti ed esili, le collaborazioni e direzioni di riviste, una stagione da costituente per il partito comunista, il matrimonio con la scrittrice Zélia Gattai, di discendenza italiana e anarchica, le fughe all’estero, gli anni in Russia, altri libri di denuncia sociale, l’allontanamento dal partito, il ritorno in Brasile e la pubblicazione di un nuovo libro, completamente diverso da tutto quello che aveva fatto fino ad allora: Gabriella, garofano e cannella.
Gabriella ha la pelle dorata e la bocca di more, cammina a piedi nudi, affonda le mani negli impasti in cucina, liberamente ama come un uccello leggero, come corpo caldo. Amado racconta la sua apparizione a Ilhéus, la sua città di origine, tra latifondisti dai ventri grassi e cervelli a forma di registratori di cassa e le vecchie beghine appassite che la spiano dalla finestra e si scandalizzano, si rodono, rispettabili e feroci, mentre il siriano Nacib cerca di ballare con lei la sua danza, si rialza e cade, perché nessuno eccetto lei può farlo al suo ritmo. Gabriella, garofano e cannella svolge lo stesso ruolo delle parole franche e dure dei libri della vecchia vita di scrittore di Amado, ma lo fa in un modo nuovo: un modo in cui non si avverte più cesura tra realtà e invenzione, ma ogni cosa vive di quella doppia vita che non si può scindere perché non si sa dove cominci l’una e termini l’altra.
È il 1958, le donne brasiliane si scandalizzarono a sentire quel canto di liberazione di Gabriella, che scioglieva, come lasciato troppo al sole, il legame tra sesso e peccato. Denunciarono Amado che aveva macchiato la loro reputazione e che non poté per molto tempo rimettere piede nella sua città.
Nella seconda vita di Jorge Amado, scrittore di lungo corso, le verità giocano a nascondersi in corpi caldi e profumati, in voglie sensuali e infuocate, in piatti e spezie della cucina Bahiana, in seni di spuma e capelli d’alghe delle divinità sincretiche e nei ritmi incalzanti delle percussioni dei terreiros di candomblé. Dona Flor, Gabriella, Santa Barbara, Teresa Batista sono l’incarnazione della complessità della vita umana, vissuta a cavallo di piccolezze e vastità, godimenti e sofferenze, piccole rivoluzioni fatte a mano e rovesciamenti di ipocrisie domestiche dei benpensanti.
E se ci sono, in quei libri, amori cocenti che sovvertono il mondo, mariti morti che tornano a visitare gli anfratti umidi delle loro vedove, se ci sono dee della guerra che animano i passi di ragazze vendute bambine dalla famiglia, se ci sono uragani che puniscono gli uomini per avere preferito verità piccine alla grandezza dell’invenzione umana, ristabilendo l’ordine di importanza, chi siamo noi per smettere di ritenerli reali?
“Dove si trova la verità? Mi rispondano per favore – chiede Vasco Moscoso Aragão, Capitano di lungo corso, in uno dei racconti più belli di Amado –: nella piccola realtà di ciascuno o nell’immenso sogno umano?”
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