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“Drawing of T. S. Eliot”, particolare dell’illustrazione di Simon Fieldhouse

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Napoli, 1944. Due ragazzi, di poco più di vent’anni, traducono senza sosta i versi di un grande poeta americano, pubblicati due anni prima. Tutto intorno c’è la guerra e il caos e l’incertezza, ma l’unica cosa che davvero importa loro è trovare le parole adatte a rendere le molteplici sfumature di senso dei versi di Thomas Stearns Eliot. La poesia è Little Gidding, ultimo dei Quattro quartetti, l’opera dell’età matura di Eliot. I due ragazzi sono Tommaso Giglio e un giovane Raffaele La Capria. Molto più tardi, a 94 anni, La Capria riprende in mano l’opera originale di Eliot, ne fa una nuova, ispirata traduzione. A coloro che gli rinfacciano di tradurre versi di un poeta reazionario e conservatore, La Capria risponde che chi si avvicina alla poesia eliotiana lo fa sulla spinta di una scoperta emotiva, non ideologica e che, allora come da ragazzi, “lo scoprimmo anche senza capirlo, lo capimmo anche fraintendendolo”.

Con lo spirito con cui La Capria si avvicina per la prima volta a lui, Eliot nei tempi della sua giovinezza poetica guardava ai suoi modelli della tradizione classica e contemporanea, ammirando in particolare la capacità dei poeti metafisici di “sentire il loro pensiero immediatamente come il profumo di una rosa.”

Ed è questo che rende la poesia di Eliot universale, in ogni “età dell’ansia”, per usare una definizione di Auden, nelle quali viene letta: l’inscindibile commistione di sentimento e intelletto, emozione e immagine, parola e percezione.

Buio buio buio / Tutti affondano nel buio / Nel vuoto spazio interstellare / Vuoto nel vuoto / Capitani, banchieri, eminenti letterati, generosi mecenati, statisti e dirigenti, insigni servitori dello stato, presidenti di molti comitati, magnati dell’industria e piccoli impresari, / tutti affondano nel buio / e buio è il sole e la luna e l’almanacco di gota, il listino della borsa, l’annuario dei dirigenti / e freddo è il senso / perduto ogni movente dell’agire”, la poesia di Eliot è la poesia di tutte le crisi, di ogni epoca desolata dell’umanità, al di là di una diacronica scansione del tempo perché “Il tempo presente e il tempo passato / Sono forse insieme presenti nel tempo futuro, / E il tempo futuro è già compreso nel tempo passato. / Se il tempo tutto è in eterno presente/ Non c’è redenzione nel tempo” (la bella traduzione, dal ritmo cadenzato e ossessivo, è quella di Raffaele La Capria).

T.S. Eliot non accettò mai di essere definito il poeta della “disillusione di una generazione” o almeno sostenne con forza che non era stata quella sua intenzione. L’intenzione, se di intenzione della poesia si può parlare, era di riuscire a plasmare le parole al meglio possibile per esprimere l’emozione particolare.

Nacquero allora i versi, i poemi e i testi teatrali di Eliot, dal suono insieme morbido, misterioso, evocativo, scabro e severo, colloquiale e astruso, dirompente e classico in un modo nuovo. Tanto che Eliot divenne insieme rivoluzionario e mito, pioniere ispiratore e bastione da abbattere per le future generazioni di poeti. “Eliot aveva deciso di essere il classico del Novecento. Aveva progettato di sintetizzare modernità e tradizione. Era un poeta che lavorava sulla filosofia e sapeva pensare con chiarezza e coerenza: ma senza essere un illuminista. Sapeva esplorare e descrivere con magnetica sottigliezza stati emotivi sfuggenti, al limite della dicibilità: eppure aveva rifiutato con determinazione l’intera cultura romantica. Aveva analizzato il caos e l’assurdo, ma aspirava alla fede e all’ordine. Era stato uno dei più rivoluzionari e durevolmente innovativi poeti moderni, la sua influenza superava ogni confine inducendo trasformazioni radicali nello stile poetico di varie letterature: eppure era un conservatore sia in politica che in arte.”, ha scritto di lui Alfonso Berardinelli.

Ho i nervi a pezzi stasera. Sì, a pezzi. Stai con me./ Parlami. Perché non parli mai? Parla./ A che pensi? A che?/ Non lo so mai a che pensi.” La vita privata di Eliot fu funestata da un matrimonio terribilmente infelice con la ballerina Vivien Haigh-Wood, come racconta anche Virgina Woolf in alcune note pagine dei suoi diari, che finì preda di una malattia mentale per la quale Eliot si decise alla fine a metterla in casa di cura, rifiutando poi di vederla per il resto dei suoi giorni. Ma senza di lei, senza lo strazio della vita quotidiana e il dolore che si procuravano l’un l’altra e che lo portò a ricoverarsi lui stesso in Svizzera per l’esaurimento nervoso cui dobbiamo The waste land, non sarebbe mai diventato poeta. La sua vita che, dirà ironicamente poi, assomigliava, in maniera alquanto bizzarra per uno di origini unitariane e puritane, a un pessimo romanzo russo, trovò la pace nel successivo matrimonio con Valerie, che curerà la sua fondazione e le edizioni postume delle sue lettere.

Nonostante i numerosi riconoscimenti in vita e il Premio Nobel nel 1948, lo spirito di Eliot è irrequieto e mai pago, in ogni sua età, nella sua opera fa i conti con se stesso e con la propria poetica perché “l’anima vive sempre in un’agonia salvifica, non conosce pace, se non nella musica del verso.”

La sua poesia nel tempo è stata oggetto di alterne fortune, per quanto nessuno ne abbia mai contestata la natura di spartiacque del linguaggio poetico e di innovazione di contenuto. I versi di Eliot fanno strazio dell’animo umano, sparpagliandone disordinatamente le angosce, di ogni età e ogni tempo, che allo scoperto assumono differenti personificazioni e forme. La sua lezione, al di là del conforto della fede in età matura e del suo personale desiderio di espiazione e ordine, è quella di un poeta che, come un Dante moderno, privo di guida e terribilmente umano, si immerge e attraversa la tradizione, l’angoscia esistenziale, lo spirito del proprio tempo, la ricerca dei significati, l’innata e inevitabile fallibilità di ciascuno per lasciarseli alle spalle, a causa della condanna, che è anche la sua salvezza, come lo è per ogni uomo, a ricominciare sempre il proprio cammino ancora e ancora, ogni volta come fosse la prima: “E così eccomi qui, nel mezzo del cammin, dopo vent’anni/ — vent’anni in gran parte aridi, gli anni dell’entre deux guerres/— cercando di imparare l’uso delle parole, e ogni tentativo/ è tutto un ripartire dal principio,/ e un modo diverso di fallire […] — ma non c’è competizione —/ c’è soltanto la lotta per recuperare ciò che si è perduto/ e trovato e perduto, e ancora: e adesso in circostanze/ che non sembrano propizie. Ma forse non c’è guadagno né perdita./ Per noi rimane soltanto il tentare. Il resto non ci riguarda.”


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