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Daniel Pennac

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“Io, Benjamin Malaussène, vorrei che qualcuno mi insegnasse a vomitare l’umano, un metodo sicuro come le due dita in gola, che mi insegnasse il disprezzo, o il gran buon odio bestiale, quello che massacra a occhi chiusi, […] Vorrei essere di quelli che chiedono il ritorno della pena di morte, e che l’esecuzione sia pubblica, […] vorrei appartenere alla vera famiglia, numerosa e tanto unita, di tutti quelli che auspicano il castigo. […] Vorrei appartenere alla grande, bella ‘anima umana’, quella che crede, vero come l’oro, al carattere esemplare della pena, quella che sa da che parte stanno i buoni, da che parte stanno i cattivi, vorrei essere il fortunato possessore di un’intima convinzione, cazzo come mi piacerebbe! Perdio se mi semplificherebbe la vita!”

La saga dei Malaussène, come ogni altro libro di Daniel Pennac, non è per orgogliosi possessori di incrollabili convinzioni o per “grandi cuori muscolosi che pompano certezze”. I libri di Pennac parlano principalmente a chi per natura dubita, perché è l’autore a dubitare per primo di tutto, a partire da se stesso. Lo fanno con una voce multiforme, affollata di suoni, cangiante. Con un racconto tortuoso, imprevedibile e rocambolesco. Con uno stile carico e caustico, immaginifico, familiare e grottesco. Parlano in un modo che non si può ignorare, perché non chiedono di essere capiti, sono e basta.

C’è un’affinità che, nella mia memoria letteraria, pone idealmente i libri di Pennac tra il Vangelo, il Marcovaldo di Calvino e le disavventure di Fantozzi, rendendo la sua letteratura uno dei baluardi della resistenza attiva alla disumanizzazione. L’incredibile e utopistica famiglia dei Malaussène, con a capo Benjamin, “fratello di famiglia” e di professione capro espiatorio, si allarga e si restringe come una fisarmonica, accogliendo man mano vecchi ex-drogati in riabilitazione, poliziotti vietnamiti con la vocazione di balie, travestiti brasiliani materni, numerosi zii, di sangue e non, medici profondamente umani, piccoli delinquenti di quartiere dalla lealtà immacolata, cani epilettici, uomini e donne di varie condizioni, età, storie ed etnie.

Le vicende e i personaggi di Pennac sono l’orrore dei benpensanti, la tomba di qualsiasi “normalità”: dalla parte del bene di questo mondo, ci sono madri amorevoli eternamente incinte che periodicamente scappano verso un nuovo amore abbandonando i figli precedenti, fratelli dai molti padri, trapianti di organi che riportano i morti alla vita, impianti di feti abortiti in corpi inviolati di suore, prostitute che diventano mogli di primari, quartieri multietnici e multiculturali, amori senza età e senza barriere di sesso o di condizione, famiglie miste, monche, multiple, allargate, improvvisate. Non esistono punti di riferimento o tabù che non vengano violati.

Eppure i Malaussène sono la famiglia più sacra che si possa immaginare. Tutti insieme incarnano l’unico valore che Pennac riconosce inviolabile nella sua letteratura: quello della cura per il prossimo, e per prossimo s’intende qualsiasi essere umano ti abbia trovato vicino in un momento qualunque della tua e della sua esistenza. La cura implica il rispetto, il rispetto esclude l’indifferenza, necessita la comprensione, la comprensione comporta tolleranza, la tolleranza accettazione. Da qui, rompendo qualsiasi limite e convenzione, si giunge alla famiglia Malaussène. Se questo è il bene, dalla parte del male c’è, di volta in volta, una manifestazione della società consumistica di oggi, cannibalica e fagocitatrice: rappresentanti deviati della previdenza sociale che iniziano i vecchi alla droga, costruttori senza scrupoli che mangiano pezzo pezzo le storiche case di Belleville, poliziotti razzisti, onorevoli corrotti, fanatici di ogni fanatismo.

Nel mezzo: Benjamin Malaussène, evangelicamente estraneo a qualsiasi colpa, eppure perennemente coinvolto nelle contorte, violente e trucide vicende che sono alla base di ogni libro. Più che per professione, Malaussène è un capro espiatorio per vocazione, a causa di un difetto originario ( “Lei ha un vizio raro, Malaussène: compatisce”), e, in mezzo a quei fatti di sangue, è perennemente indiziato, senza prove che lo discolpino e con un movente incontrastabile. Ma, quasi sempre, trova sul suo cammino coloro che dubitano, perché solo chi dubita riesce a non sottostare alle schiaccianti evidenze che l’esistenza propina.

Daniel Pennac, nato a Casablanca nel 1944, per esempio, era quello che tutti direbbero uno stupido, o almeno si riteneva tale. Era, infatti, da ragazzo uno di quegli studenti “asini” che si definiscono irrecuperabili. Incontra però sulla sua strada professori che, contro ogni evidenza, lo recuperano, comprendono in lui il futuro scrittore, lo indirizzano verso la lettura. Leggere è quello che fa con maggior trasporto (“Ogni lettura è un atto di resistenza. Di resistenza a cosa? A tutte le contingenze”). Si laurea in lettere, diventa professore per avere il tempo di scrivere, ma si appassiona e resta insegnante per trent’anni, anche quando sarà diventato uno scrittore noto in tutto il mondo.

“Tutti i miei fallimenti – racconta – una volta diventato professore, li ho trasformati in sapere. […] Gli alunni sono la ‘ragione sociale’ dei bambini: perché alcuni trovano tanta difficoltà, tanta sofferenza e dolore per maturare questo ruolo sociale di alunni? La risposta è: la paura. La paura delle domande che possono esser loro rivolte. In un certo senso possiamo dire che tutti noi abbiamo legittimamente paura quando veniamo interpellati, quel piccolo secondo che ci mettiamo in media a rispondere è abitato da quella strana paura. Perché in fondo sentiamo che tutta la nostra identità è ogni volta giocata nella risposta che dobbiamo dare, anche se la domanda è: dov’è la toilette? Ecco, per un bambino tutte le risposte sono fondamentali, nessuna banale. Perché da quelle risposte dipende l’opinione che questo mondo semi-divino di giganti avrà di lui. Ecco perché bisogna aiutare i ragazzi a guarire da questa paura innata, per insegnare loro qualcosa.”

Come quando era insegnante, Pennac da scrittore illumina evidenze trascurate, segnala le resistenze della paura, accompagna alla consapevolezza, capovolge punti di vista, abbatte convinzioni, perché “La certezza è una casa chiusa. Lo scrittore è un fabbro che deve aprire quella porta”. Non a caso la famiglia Malaussène risiede in una vecchia ferramenta dismessa.


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