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Come siamo messi a felicità? Tira una brutta aria, forse, in questa lunga fase pandemica dalla quale, pian piano (forse troppo piano) stiamo tutti cercando di uscire.

Forse oggi parlare di felicità è apparentemente semplice: probabilmente basta pensare alla libertà di poter tornare a fare le cose semplici che facevamo fino a un anno addietro per immaginarci tutte e tutti pimpanti e felici. Anche se quelle cose sono state in parte causa di questa situazione.

Ma la felicità è un concetto complesso, certamente multidimensionale, e che affascina gli studiosi di molte discipline da sempre. Non è una cosa che si possa relegare ad un singolo aspetto, per quanto importantissimo e magari oggi lontano come un miraggio.
Fra i primi a riflettere sul concetto di felicità, Aristotele.

Il grande filosofo greco aveva in proposito idee molto chiare: “Possiamo definire la felicità come la prosperità unita alla virtù; come una vita indipendente; o come sicuro godimento del massimo piacere; o come una buona condizione di beni e di corpo, unita al potere di difendere i propri beni e il proprio corpo e di farne uso.” Cosa è rimasto di un’idea di felicità così estesa e multidimensionale?

L’ultima graduatoria dell’autorevole UN Sustainable Development Solutions Network delle Nazioni Unite, che ogni anno stila una lista dei Paesi più felici del mondo, il cosiddetto World Happiness Report, pare non lasciare ombra di dubbio.

È rimasto veramente poco. Il paese più felice al mondo nell’anno pandemico 2020 è la Finlandia. E qui il primo rilievo è d’obbligo: siamo passati da un elenco di cose materiali e immateriali suggerite dal grande filosofo dell’antica Grecia a una serie di indicatori certamente misurabili.

Siamo sempre più dipendenti dai numeri, non possiamo più farne a meno. È un fenomeno dilagante, quello del cosiddetto dataismo, che peraltro si permea alla perfezione in questo attuale modello di società, una società della prestazione. Abbiamo bisogno di conteggi, numeri, dati, statistiche, graduatorie e tabelle: abbiamo smarrito il senso dell’importanza delle storie e delle narrazioni.

Ma se anche volessimo continuare a dar credito all’approccio meramente numerico, scorrendo la graduatoria scopriamo che fra le prime 10 nazioni al mondo per quanto riguarda la felicità, ben 9 sono in Europa (l’unica eccezione è la Nuova Zelanda). E si badi bene, neanche sparse nel vecchio continente, ma tutte abbastanza raggruppate nella parte Nord dello stesso.

E quindi troviamo Svezia, Islanda, Norvegia, Paesi Bassi e via cosi. Sempre all’incirca a Nord. Il sospetto che, alla base, vi sia un vizio nella scelta degli indicatori che dovrebbero “misurare” il concetto di felicità a questo punto appare più che legittimo.

È un’idea in qualche modo già chiara anche al senatore Robert Kennedy, che nel corso dell’accesa campagna presidenziale nel marzo del 1968 criticò in modo molto deciso la paventata equivalenza ricchezza/felicità a partire dai dati del Prodotto nazionale lordo.

“Il calcolo del nostro PNL – argomentò Robert Kennedy – tiene conto dell’inquinamento atmosferico, della pubblicità delle sigarette e delle corse in ambulanza per soccorrere i feriti sulle strade…comprende la produzione del napalm, delle armi nucleari e delle automobili blindate della polizia destinate a reprimere i disordini nelle nostre città… non tiene conto del nostro coraggio, della nostra saggezza e della nostra cultura…non dice nulla della nostra pietà o dell’attaccamento al nostro paese. In breve, il Pnl misura tutto, tranne quello che rende la vita degna di essere vissuta.”

Se poi la vediamo, anni dopo, dal punto di vista di un sociologo che ha fatto scuola come Bauman, secondo il quale “la felicità è uno stato mentale, corporeo, che sentiamo in modo acuto, ma che è ineffabile. Una sensazione che non è possibile condividere con altri. Ciononostante, la caratteristica principale della felicità è quella di essere un’apertura di possibilità, in quanto dipende dal punto di vista con il quale la esperiamo”, allora forse il convincimento che stiamo parlando di qualcosa di scarsamente misurabile si rafforza.

Abbandoniamo allora questa rincorsa a quantificare ogni cosa, e torniamo a parlare di concezioni diverse della felicità. Restiamo per esempio negli Stati Uniti, facendo un salto temporale all’indietro.

Thomas Jefferson (che sarebbe poi diventato, nel 1801, il terzo Presidente americano), in occasione della dichiarazione di Indipendenza, cosi concludeva il suo intervento: “Riteniamo che queste siano verità auto-evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali; che sono dotati dal loro creatore di diritti inalienabili; che fra questi vi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità”.

La felicità come diritto inalienabile per tutti, quindi. Una felicità intesa anche solo come immaginazione, come suggeriva Mozart. Una felicità che non doveva neanche essere posta al centro della ricerca della propria vita in maniera quasi ossessiva, come ci ricorda molto bene John Stuart Mill.

“Sono felici solo coloro che fissano la loro attenzione su qualche oggetto diverso dalla propria felicità; sulla felicità degli altri, sul progresso dell’umanità, su un’arte o una ricerca, considerandole non un mezzo, ma un fine ideale. Mirando quindi a qualcos’altro, essi trovano la felicità lungo il cammino… Chiedetevi se siete felici e cesserete di esserlo. L’unica possibilità consiste nel trattare come scopo della vita non la felicità ma qualche fine estraneo ad essa”.

Un invito, insomma, a non guardarsi sempre allo specchio, alla ricerca di una condizione di felicità sempre da definire singolarmente, quanto a godere delle enormi possibilità fornite dalla ricchezza immateriale di essere parte di una comunità che – in modo armonioso – possa contribuire alla nostra piccola, e importantissima, felicità.

Quello che traspare da molte interpretazioni della stessa felicità è, peraltro, un concetto legato alla temporalità, intesa come modalità stessa del presentarsi di uno stato felice. Come se si trattasse di una ricerca continua, un rincorrere un obiettivo che di per sé – in quanto ricerca – genera benessere.

Ne era fermamente convinto anche il padre della psicanalisi, Sigmund Freud, convinto che “…gli uomini lottano per ottenere la felicità; vogliono diventare felici e rimanere tali. Ciò che chiamiamo felicità in senso stretto, deriva dalla soddisfazione dei bisogni che sono stati fino a una certa misura ostacolati. Per sua natura, quindi, è possibile solo come fenomeno episodico”. Molto chiaro.

Non si raggiunge la felicità come se si raggiungesse la cima di un colle e si continuasse a vivere sempre lassù. La felicità è uno stato che va vissuto attimo per attimo.

È una modalità di relazionarsi con il bene e il benessere collettivo della comunità in cui viviamo. E allora aveva forse ragione il saggio Orazio, quando ammoniva “Mio caro, finché c’è ancora tempo, goditi i beni della vita e non dimenticare mai che i tuoi giorni sono contati. Carpe diem”.


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