Zelda Fitzgerald
7 minuti per la letturaA riflettere sulla natura squilibrata di alcuni matrimoni, che per la donna si traducono presto in gabbia, ci induce la lettura del nuovo romanzo di Pier, La grande Zelda (Marsilio, 2022). Razzano ricostruisce la parabola di una delle figure femminili più smaglianti e drammatiche del primo Novecento: Zelda Fitzgerald, nata Sayre. La fase ascendente, da ragazza della provincia americana fino a diventare musa ispiratrice di Francis Scott Fitzgerald, lo scrittore più in voga del momento. La vivacità di quella giovane donna, la sua passione per il ballo e anche per la scrittura. Feste, teatri, alberghi di lusso nella New York degli anni ruggenti e nelle più belle città d’Europa.
Una coppia felice, però, solo in apparenza. Razzano coglie alla radice la natura disfunzionale del loro modo di essere coppia e lo consegna al lettore attraverso il flusso di coscienza della protagonista ormai matura: «Ci eravamo conosciuti, nel 1918, Scott era convinto che la mia felicità dipendesse da lui. Da quello che sarebbe stato capace di diventare con ogni briciolo delle sue forze. […] Quello che avrebbe conquistato per lui sarebbe valso anche per me. Ero innamorata dei suoi occhi e della sua ambizione e dei suoi baci».
Poi, il matrimonio, la gravidanza, l’aumento di peso, la crisi sempre più profonda del loro rapporto per il riemergere di due distinte personalità con esigenze e interessi diversi, spesso contrapposti. I divieti e le ribellioni, i litigi di lui in privato e le scenate di lei in pubblico. Lei che si aggrappa all’alcol, lui che le rinfaccia le proprie difficoltà editoriali, dopo il successo de Il grande Gatsby. L’alcol fino alla fine: nel 1930, Zelda viene fatta rinchiudere dal marito in una clinica, in Svizzera. Di lusso, ma pur sempre un manicomio.
L’Autore non lo afferma esplicitamente, ma lascia che il lettore colga il rapido deterioramento della salute mentale di Zelda come conseguenza delle imposizioni subite in nome dei doveri coniugali e della cura della famiglia. La conseguenza dell’annullamento della propria personalità fino alla rinuncia alla carriera di ballerina imposta dal marito, proprio quando, dopo tanti sacrifici e durissimi quotidiani allenamenti, nel Settembre del 1929 Zelda aveva ricevuto da madame Julie Sedowa, allora direttrice della Scuola di ballo del Teatro San Carlo di Napoli, l’invito a ricoprire il ruolo di prima ballerina nell’Aida. Razzano, infatti, sin dalle prime struggenti pagine, catapulta il lettore nel flusso dei pensieri di Zelda che, già rinchiusa in manicomio, associa barlumi di ricordi della vita che fu, alla drammatica percezione della condizione presente: «L’amore è crudele» pensa Zelda quando è lasciata dal marito nelle mani del medico. «Te lo strappa proprio chi te lo ha consegnato, restandoti accanto solo per denudarti, fino a quando non rimane più nulla. […] Mi ha confinata qui, affidandomi a giorni di silenzio diluiti in un’irritante e interminabile calma. Come se questi giorni muti potessero curarmi, con iniezioni di assenza».
L’infermiera che «porta un odore bianco», un «odore di niente» e «confeziona giornate anonime in infermeria, le trasporta sul carrello, viene a somministrarmele»; il dottor Forel che con il solo movimento degli occhi rivolto agli inservienti «è in grado di sbarrare le porte, spegnere le luci, rovistare nella mia mente. Lui crea il buio, la mia camera, l’assenza di Scott, e di mia figlia Scottie; ha sigillato l’ingresso dello studio di danza di Parigi, ha fatto sparire Madame Egorova. Ha lasciato giusto una fessura per farmi sbirciare l’Alabama, è convinto che io debba guardare il passato a piccole dosi».
E, invece, i ricordi deflagrano e flagellano quella coscienza inquieta e solo in parte narcotizzata dai farmaci. Tra tutti, il più drammatico è proprio quello che la riporta a Cannes, dove le fu recapitata quella lettera che la voleva prima ballerina del San Carlo di Napoli, e alle parole sorde del marito: «Come farai a occuparti di nostra figlia se sprecherai tutto il tuo tempo a ballare? Hai intenzione di lasciarla sola in quella città sudicia e cattiva? Saresti capace di affidarla a qualche donna grassa che non le darebbe neppure da mangiare. Zelda, è tutto così ridicolo e privo di senso». «È lavoro! La danza è il mio lavoro!» «Sono io il responsabile di questa famiglia. Responsabile di te e di Scottie!».
È un tema doloroso e complesso quello dei matrimoni che si rivelano una gabbia. Un tema che ha attraversato la produzione narrativa del Novecento. La prima a fare scandalo per la carica polemica con la quale rivendicò i propri diritti di donna tanto sul piano più intimo degli affetti personali, quanto su quello collettivo dei diritti politici e dell’emancipazione sociale, fu Rina Faccio. Eravamo nel 1907 e Una donna, suo primo romanzo, lo firmò con lo pseudonimo di Sibilla Aleramo. In quel libro, molto letto in Italia e tradotto in varie lingue, l’Autrice raccontò se stessa. Nata ad Alessandria, dovette presto adattarsi a vivere in una piccola cittadina delle Marche dove il padre ingegnere si era trasferito per dirigere una fabbrica. Fu sposa a sedici anni e seguì il marito a Roma. Passata, così, dalla tutela paterna a quella del coniuge, si rese conto della propria condizione d’inferiorità giuridica, economica, sociale. Non votava, era soggetta economicamente al capofamiglia e sempre esclusa da ogni decisione sulle «cose importanti».
Doverosa era, invece, la dedizione al consorte, fino all’annullamento della propria personalità. Tuttavia, la presa d’atto di tale condizione («La legge diceva ch’io non esistevo. Non esistevo se non per essere defraudata di tutto quanto fosse mio, i miei beni, il mio lavoro, mio figlio!») non induce Sibilla Aleramo alla rassegnazione, ma sviluppa in lei quella «forza ferrea» necessaria a rivendicare il proprio spazio vitale, a separarsi dal marito anche a costo del doloroso distacco dal figlio.
Il matrimonio si rivela gabbia soffocante anche nelle pagine di Natalia Gizburg. Mio marito (1941), inserito nella raccolta Cinque romanzi brevi e altri racconti, narra di un matrimonio contratto da due persone per motivi diversi: lei, per sfuggire alla monotonia della vita quotidiana nella famiglia paterna; lui, per cercare di superare una discutibile relazione con una giovanissima contadina. Tuttavia, nessuno dei due otterrà i risultati sperati, poiché lui resterà sempre più irretito in quella torbida e tragica passione, mente lei, che stenta persino ad amare i propri figli poiché proietta su di essi la mancanza d’amore alla base di quella famiglia, finirà presto col sentirsi più sola e prigioniera di prima.
Non pensi il nostro lettore che la questione sia manifestazione di un ritardo culturale soltanto italiano, perché nel Novecento ancora più inoltrato a pubblicare vicende simili è stata anche Simone de Beauvoir, icona del femminismo francese. Una donna spezzata (1967) è un romanzo che in forma diaristica riporta i fatti, le emozioni e le riflessioni di Monique quando, scoperto che il marito ha un’amante, è costretta a prendere atto della crisi del proprio matrimonio, a ripercorrere le tappe di quel progressivo allontanamento fino all’atrofizzarsi dei sentimenti. Ed è proprio nella solitudine di quel momento che si fa strada la consapevolezza di essere stata amante, moglie, madre senza avere voluto o saputo crearsi uno spazio proprio.
Non pensi neanche il nostro lettore che sia tutto legato a una questione di ‘genere’, tutto frutto dell’insensibilità connaturata all’essere maschio, perché basterebbe una delle tante novelle di Pirandello a fare crollare l’ipotesi. Basterebbe Il viaggio (1910) per cogliere la forza con cui il narratore, siculo e maschio, denunciava lo stato di clausura Adriana Braggi, vedova da tredici anni e sempre chiusa in casa benché ancora giovane, per effetto dei «rigidi costumi» vigenti in quell’alta cittaduzza dell’interno della Sicilia; costumi che «per poco non imponevano alla moglie di seguire nella tomba il marito […] In perpetuo lutto, fino alla morte».
E oggi abbiamo anche La grande Zelda. Un libro esemplare, capace di scolpire nella memoria del lettore uno dei personaggi più rappresentativi del dolore di donna nel nostro Novecento.
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