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Progresso: un argomento che ha sempre diviso l’umanità fin dall’antica Grecia a partire dai distinguo di Seneca. Va bene solo se segue la natura


Per comune sentire, il concetto di “progresso” è spesso considerato sinonimo di “crescita”, “progresso”, “sviluppo”, “innovazione”. Tutti usati come sinonimi, tutti ritenuti portatori di valori squisitamente positivi. Il termine progresso deriva da una parola latina che significa “movimento in avanti”, e come si sa, andare avanti è un bene, restare fermi, un male.
La storia insegna che gli esseri umani hanno, sin dalle origini, sviluppato strumenti, sia tangibili che intangibili, per imporre l’ordine, mitigare i rischi e cercare di uscire dalle prossimità spaziali e temporali del loro recinto. Non è un caso se il valore del progresso ancora oggi venga spesso inteso come crescita economica e  tecnologica, e misurato in termini di guadagni, andando di pari passo con il miglioramento delle condizioni di vita del singolo e dell’intera collettività. Nondimeno, è proprio la storia che insegna che non sempre progresso sia sinonimo di benessere. Soprattutto quando la crescita è solo di alcuni, e a scapito di altri. In questo senso, il vero progresso può avvenire solo quando riflettiamo sui rischi e sulle conseguenze delle scelte che facciamo. 

Di questo ne era pienamente consapevole già Seneca. Lo scrittore latino nega i vantaggi del progresso quando questi si compiono senza seguire la Natura. Così Seneca nella Medea deplora, per bocca del coro, l’eccessiva audacia dei primi uomini che osarono violare le acque del mare. Qui, egli condanna, in particolare, la navigazione poiché frutto dell’avidità, della stoltezza e della sconsideratezza umana. Ciò non toglie che egli riconosca pur sempre le virtù dell’umano progredire se seguono la Natura, dichiarando la sua indiscussa fede nei futuri progressi.
Nel corso del tempo si può dire che la concezione di progresso ed il suo rapporto con la Natura e tutte le sue componenti, non sia più di tanto mutata. Le posizioni tra favorevoli e contrari restano pressoché invariate.

A partire dalla metà dell’Ottocento, la fiducia nel progresso è, come si sa, un corollario della cultura filosofica e scientifica denominata Positivismo, che rivendicava il primato del pensiero scientifico, prefigurando l’avvento di una nuova fase dell’umanità in cui potesse trovare finalmente compimento il dominio dell’uomo sulla della Natura. Non a caso, August Comte, filosofo del Positivismo sociale, mostra una visione del progresso estremamente ottimistica: lo definisce come qualcosa di “essenziale” per un perfezionamento incessante dell’uomo, basato sulla scienza e sul metodo sperimentale.
Di diverso avviso è, invece, Nietzsche che non intende inchinarsi alla potenza del progresso. Sebbene sia mestamente consapevole che l’evoluzione storica e sociale sia in atto e costituisca un fattore irreversibile e che non si può eliminare. Ciò nondimeno egli si mostra fermo nel voler mettere radicalmente in discussione tutto ciò.  Così, nei  Frammenti Postumi, rovescia la prospettiva della fede nel progresso smascherandolo come un mito che, tuttavia, si è compiuto e aprendo profonde contraddizioni.

Fiduciosi nell’inarrestabile progresso della società e del sapere scientifico, erano gli esponenti della corrente del Naturalismo. Emilé Zola poneva infatti la letteratura al servizio della trasformazione del mondo. Idee che vengono rielaborate nel noto saggio Il romanzo sperimentale, dove l’autore è insieme uno osservatore e uno sperimentatore, assumendo così un compito analogo a quel del suo protagonista, l’insigne medico Claude Bemard.
Decisamente più pessimisti sono invece i portavoce del Verismo italiano, poco fiduciosi nell’assoluta positività del «progresso», anche perché il loro retroterra ideologico che li induce a prendere posizione contro il progresso è costituito, essenzialmente, dalla logica del cosiddetto “fatto nudo e schietto” che ha come punto di osservazione privilegiato le arretrate campagne del Sud d’Italia. Del resto, come ci racconta Giovanni Verga, la tanto sbandierata fiducia si radicava in un panorama sociale di fine Ottocento che era tutt’altro che idilliaco. Urbanizzazione ed emigrazione si traducevano nello sradicamento di intere popolazioni dalle zone di origine con conseguente abbandono delle campagne, dando origine a fenomeni di dimensioni bibliche, destinati a produrre conseguenze indelebili nel tessuto sociale dei tempi avvenire.

Tra le critiche alla società e al progresso industriale memorabile è poi quella che ci viene narrata nell’intramontabile film “Tempi moderni” di Charlie Chaplin del 1936, una straordinaria operazione di  lettura della società, non solo nel presente ma anche nel futuro. Siamo dinnanzi ad una realtà industriale, dove gli operai che lavorano senza sosta nelle fabbriche sono una metafora sulla nuova visione del mondo del lavoro, interessato solo a produrre in quantità maggiore i propri prodotti e, di conseguenza, a battere la concorrenza, senza tenere conto delle condizioni lavorative di coloro che sono costretti a vivere una vita faticosa e laboriosa. Testimonianza è il fatto che i lavoratori vivono in una dimensione di incatenamento, di ingranaggio che non può essere interrotto o fermato se non a danno dell’azienda e del flusso operativo. È la metafora del conflitto uomo-macchina, la critica a quel  sogno americano  tanto promettente quanto illusorio.

Tuttavia, anche nel corso del Novecento l’approccio nei riguardi del progresso tende ad assumere differenti sfumature, registrandosi sentimenti contrastanti e ambigui. Da un lato vi è la concreta aspettativa di un miglioramento di vita grazie alla creazione di nuove macchine sempre più sofisticate, in grado di aiutare l’essere umano, anche sul piano delle aspettative di vita; dall’altro questo stesso progresso prefigura inquietanti scenari rischiando di sfuggire al controllo dell’uomo. Così se il movimento del Futurismo celebra nel suo Manifesto del 1909 “l’eterna velocità onnipresente, proponendosi di cantare, nella lontananza dal passato e nell’irriverenza per la tradizione, il vibrante fervore della modernità di fronte a una folla entusiasta”.  Contemporaneamente, il pensiero scientifico inizia a guardare con più disincanto alla propria professione, consapevole di sottostare agli stessi limiti della condizione umana.

Come sempre, a farsi portavoce di questi cambi di rotta è il pensiero letterario, testimone di grande impatto emotivo, che narra le incertezze che avvolgono il destino dell’uomo dell’epoca. Tutto questo si può rintracciarlo nelle pagine di Alberto Moravia, che utilizza la sua prosa come uno strumento per definire i contorni del progresso e delle sue manifestazioni latenti. Le sue pagine, pur evocando atmosfere spesso opprimenti, sono in grado di far riflettere il lettore senza dare risposte ultimative a questioni che di per sé una soluzione non hanno, assumendo così una forza smascherante, capace di scardinare, entro il perimetro dell’azione romanzesca, rapporti e situazioni, fisiche e retoriche, ormai abusate e anacronistiche. In particolare, Moravia nell’antologia di racconti L’Automa ripercorre le sorti della modernità e rileva, con largo anticipo, le derive della tecnica.

In queste storie viene messo in luce il pericolo che l’essere umano sia sempre più assoggettato dai mass media e da un’iperattività che non conduce a un vero e proprio beneficio. Non è da meno George Orwell, che nei suoi romanzi mette in guardia contro i totalitarismi, ma anche contro i lati oscuri del progresso. Note le pagine di 1984, ove l’autore svela il rovescio del progresso, dimostrandosi un vero e proprio incubo. Sono tutti racconti che incrinano la fiducia nel progresso e nelle capacità illimitate della scienza. Storie in cui l’immaginazione degli scrittori è stata per lo più impiegata per disegnare  tragiche degenerazioni portate dalla scienza, più che per glorificarne i passi avanti.

Tuttavia, rinnegare il progresso in termini definitivi non sarebbe possibile. Ciò significherebbe negare anche tutte le scoperte che hanno cambiato la vita umana nel corso del tempo. Non si può, dunque, pensare che la storia sia un elemento privo di progresso. La storia comprende diverse facce del progresso: tutto dipende da come queste si combinano tra loro. Il progresso non deve essere disincantato poiché produrrebbe solo obiettivi disumani e negativi, rischiando di sfuggire al controllo dell’uomo. Se ci pensiamo bene, sono proprio questi i rischi ai quali sembra che stiamo andando incontro soggiogati dal dominio di sistemi di intelligenza artificiale e algoritmi. Ma, il progresso non può essere neppure intenso in termini di supremazia, in quanto finirebbe per essere fonte primaria di diseguaglianze e discriminazioni.

Dunque, inseguire la crescita fine a sé stessa non è la soluzione ottimale. Semmai, il concetto di progresso deve suggerire qualcos’altro. Lo sviluppo di nuovi strumenti, l’invenzione e la creazione di realtà parallele a quella umana, la promozione di scoperte scientifiche possono costituire un’evoluzione e una crescita per l’umanità quando sono in grado di colmare i divari, quando agiscono nella giustizia, nell’uguaglianza e nel rispetto dei diritti umani.  Altrimenti, il progresso, qualunque sia la sua veste, non significa nulla se opprime noi stessi.

Non si tratta, quindi, di rifiutare l’idea stessa di progresso, che rimane sempre presente anche in un’epoca ammantata da una velata sfiducia nei confronti del futuro. Semmai, si tratta di riorientare il progresso, disancorandolo dall’illusione di uno sviluppo illimitato delle conoscenze umane, per ricondurlo nella prospettiva di accrescimento delle capacità dell’uomo, retto sempre da un intendimento morale e da un orientamento verso il miglioramento del genere umano. Dunque, un progresso che ci permette di far fiorire l’umano invece che vagheggiare il superumano. Un fine da perseguire e da conquistare con tutte le risorse della società, dell’economia, della cultura e dell’intelligenza. Su questo specifico fronte, è forse il progresso umano la sfida più importante e affascinante che dobbiamo vincere.


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