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Andrea Mantegna, “Crocifissione” (1457-1459). Louvre, Parigi

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«QUANDO furono giunti al luogo detto “il Teschio”, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra» (Luca 23,33). I vangeli, che raccontano l’evento della crocifissione di Gesù di Nazareth, non danno nomi ai due ladroni, diversamente dal Vangelo arabo dell’infanzia, un apocrifo del VI secolo, che affibbia ai due ladroni i nomi di Tito e Dimaco e aggiunge un racconto di come Tito (Disma) impedì ad altri ladroni della sua banda di derubare Maria e Giuseppe durante la loro fuga in Egitto.

È proprio ai vangeli apocrifi si rifà De Andrè per narrare della vicenda di Gesù in La Buona Novella, del 1970, in piena rivoluzione sessantottesca, ritenendo Gesù l’unico vero e autentico rivoluzionario di tutti i tempi. Così ne Il testamento di Tito, fa parlare il ladrone buono, mettendogli in bocca una esegesi (poeticamente controintuitiva) dei dieci comandamenti «Il settimo dice: “Non ammazzare”, se del cielo vuoi essere degno. Guardatela oggi, questa legge di Dio, tre volte inchiodata nel legno: guardate la fine di quel nazareno e un ladro non muore di meno».

Faber non crede (essendo agnostico) nella divinità di Gesù, ma ne apprezza la sua umanità, soprattutto perché sta dalla parte dei poveri, degli immiseriti, dei “maledetti della storia”, gli umili e gli straccioni, in una parola di quegli scartati iniquamente dalla società (ingiusta), ai quali rivolge l’attenzione di tutte le sue canzoni. Tutta l’opera è una critica a certe interpretazioni maldestre della religione (qui è in gioco il cattolicesimo) che con norme e prescrizioni (false) avrebbero snaturato l’insegnamento autentico di Gesù. Nell’ultima canzone dell’LP intitolata Laudate hominem, fa la sua confessione di fede nel Figlio dell’uomo – «Non voglio pensarti figlio di Dio, ma figlio dell’uomo, fratello anche mio» – e denuncia l’infamia più grande del potere che si fa Dio per esercitare la sua violenza uccidendo gli altri: «il potere che cercava il nostro umore […] nel nome di un dio uccideva un uomo, nel nome di dio si assolse poi […] poi chiamo dio quell’uomo e nel suo nome, nuovo nome, altri uomini, altri uomini uccise». Nella sua lezione magistrale a Regensburg, Benedetto XVI lo aveva detto, commentando alcune Sure del Corano: “agire con violenza è contro la natura dell’anima e di Dio”. Lo stesso Papa Francesco ha più volte insistito su questo: “uccidere in nome di Dio è satanico”.

Perciò il messaggio di De Andrè coincide con l’insegnamento degli ultimi due papi cattolici, nonostante una lunga storia di sciagurate vicende nelle quali il volto del Dio di Gesù Cristo – “Dio-agape, solo e sempre amore- è stato mascherato da improbabili tratti del Dio guerriero che uccide popoli e nazioni, un Dio partigiano che ancora oggi viene invocato come “il Dio che sta dalla nostra parte” nella guerra in Ucraina (vedi la posizione del patriarca Kirill). In verità, morendo sulla croce, Gesù fa morire – una volta per tutte- il Dio Signore degli eserciti e dichiara l’eterna comunione di amore di Dio in Dio. Se Pilato aveva profeticamente dichiarato, davanti alla folla che grida “crocifiggilo, crocifiggilo”, “Ecce homo” (=ecco l’uomo), Gesù con il suo silenzio muto invece dichiara: Ecce Deus (= ecco Dio). Nella condizione dell’assoluta impotenza di Dio, inchiodato a un legno e morente, Dio – in Gesù, il Figlio suo- si mostra assolutamente potente nell’amore. Egli che è onnipotente nell’amore, è anche assolutamente impotenza nel fare il male: può solo elargire misericordia e perdono.

Perciò De André può chiudere la sua “buona Novella”, avendo recepito l’autentico messaggio cristiano: «io nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore». Una mossa di sapienza che supera ogni logica della ragione umana. La croce di Gesù resta follia per i greci e scandalo per tutti. Eppure svela il fondamento del tutto, rifondando (cioè mettendo sulle sue basi solide) la vita degli uomini sulla Giustizia. Il crocifisso, infatti, “giudica” il mondo con misericordia e chiede a tutti di interrogarsi: “come deve essere l’amore per essere come deve? Come deve essere la giustizia per essere come deve? Come deve essere la verità per essere come deve e così via?”. Interrogativi che potranno trovare risposta autentica, solo se trasmetteranno la “sapienza della croce”, nella quale si manifesta Dio-agape e l’uomo vero, in “qualità divina” che rende l’animale “umano” e gli impedisce di trasformarsi in bestia: la partecipante sensibilità al dolore e alla sofferenza degli altri. “Divino” non è Dio – perché, se Dio esiste, è Dio non divino-, divino è l’uomo che è creato a sua immagine e somiglianza (perciò è divino) e questa sua qualità divina lo porta ad autotrascendersi nell’amore, con empatia, immedesimazione, capace di “inaltrarsi” (A. Rosmini) con compassione.

È l’affezione originaria dell’umano-che-è-comune, questo istinto dell’animale-uomo che vuole aver cura degli altri, fino alla possibilità estrema di morire per amore, così solo amando davvero: “amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi”. È il comandamento di Gesù, testimoniato sulla croce. Questa potente “mossa sapienziale” è stata ben colta dall’anticristiano F. Nietzsche: per lui l’unico cristiano vero morì sulla croce. Dopo la morte di Cristo la croce venne ideologizzata fino a produrre il concetto cristiano di Dio, il quale riassumerebbe sinteticamente tutte le menzogne di questa religione: «Dio degenerato fino a contraddire la vita invece di esserne la trasfigurazione e l’eterno si! In Dio è dichiarata inimicizia alla vita, alla natura, alla volontà di vivere! Dio, la formula di ogni calunnia dell’ “al di qua”, di ogni menzogna dell’ “al di là”! In Dio è divinizzato il nulla, è consacrata la volontà del nulla».

Tutto questo insegnerebbe il vangelo della croce ideologizzato da Paolo. Su un solo punto qui Nietzsche ha ragione: la croce dice la qualità cristiana di Dio. Dunque: ecce Deus, e non solo ecce homo. La pazzia della Croce, invece, genera una sapienza superiore, soprannaturale, aperta e disponibile a una sua declinazione in “saggezza filosofica”, capace di ridare slancio all’esercizio della ragione, per una risposta profonda ai tanti interrogativi emergenti dalla considerazione della massa enorme di sofferenza umana, dalla diffusa realtà di eventi dolorosi nella vicenda del singolo o dell’intera umanità: che senso ha la vita se è così penosa? Perché il dolore? Come si mostra lo sconfinato amore di Dio? Perché il male mondo non viene impedito da Dio? La Croce è anche “pensiero”, scientia crucis, evento rivelativo come sapere su Dio, sull’umanità storica e contiene dentro la sua folle sapienza una concezione generale della realtà: una metafisica che occorrerebbe enucleare o una ermeneutica dell’esistenza che bisognerebbe riproporre oggi.

Pensare intensivamente, criticamente, a partire dalla Croce, “filosofare con la Croce”, non è una idea peregrina, ma è un compito indispensabile per il terzo millennio allo scopo di rifondare una cultura della pace, della solidarietà, la sola che possa permettere un vero incontro tra etnie diverse, tra popolazioni più disparate nella società multirazziale e multireligiosa. D’altra parte, la tradizione filosofica abbonda di “esperti della croce” (Pascal, Kierkegaard, Edith Stein e tanti altri) testimoni della possibilità di filosofare con la Croce, di coniugare la sua sapienza in un pensiero filosofico, autenticamente tale, pur nel rispetto del carattere eccedente e non razionalizzabile della croce: qui il pensiero si lascia guidare dalla Croce, ma non riduce la Croce in uno schema logico, in un simbolo laicizzato, secolarizzato, in una cifra della legge del divenire del mondo, come accada nel “Venerdì santo speculativo” di Hegel. Si tratta infatti di filosofare con la croce, di produrre una spiegazione filosofica orientata dalla fede e non invece una spiegazione filosofia della fede, una razionalizzazione dei suoi misteri: la “croce speculativa” (Schelling).

La Croce resta dunque “pazzia” per la ragione, in quanto evento del manifestarsi salvifico della gloria di Dio all’uomo: in questa eccedenza – che deve essere mantenuta e non dissolta- essa irradia di sé con la sua luce la storia degli uomini, informa sapientemente anche sulla vicenda umana e sul suo significato, aprendo gli orizzonti della ragione sul quel legame tra Dio e l’uomo che non può essere eluso se si vuole cogliere realmente la verità sull’uomo. La Croce non è un geroglifico dell’umanità, un segno universale dell’uomo universale (René Guénon), ma è comunicazione sapiente di Dio alla domanda di significato che inquieta il cuore dell’uomo. Il dialogo tra i due ladroni diventa allora importante, perché designa “due tipi di umanità”.

Perciò, nei vangeli non hanno bisogno di avere “nomi”, essendo come delle “personalità corporative”, rappresentanti di due modi essenziali di essere umani difronte alla morte: il primo – provoca Gesù e lo incita a liberare se stesso e loro-, è l’uomo che utilizza strumentalmente il soprannaturale per le proprie faccende umane, perché non accetta la morte e ha paura di morire, così vivendo di una idea di Dio, molto vicina alle divinità delle tragedie greche, a uso e consumo delle proprie necessità materiali; è un egoista, nemmeno si accorge che l’altro soffre, coglie quel momento opportunisticamente, pensando solo a se stesso; il secondo – quello che riceve la promessa d’ essere “oggi stesso in paradiso con Gesù”- non è meno “ladro” del primo, ma riconosce le proprie colpe e accetta il giudizio e, diversamente, ha “occhi per il dolore e le sofferenze dell’altro”, guarda al morire crocifisso di Gesù come diverso dal suo stesso morire, perché riconosce Gesù “innocente”; così dicendo, il ladrone è “buono”, semplicemente perché è “rimasto umano”, il suo cuore non si è indurito per la sofferenza della condanna, non ha perduto la sensibilità al dolore degli altri e, pertanto, è gà entrato nel Paradiso di Gesù: il non-luogo e il non-tempo in cui l’umano spende in tutta bellezza nell’agape di Dio, solo e sempre amore.

*Vescovo e presidente della Pontificia Accademia di Teologia


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