"La danza", di Henri Matisse
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QUALCHE settimana fa sono stato invitato a tenere una relazione in Senato nell’ambito di un convegno molto interessante sul tema dei “Corpi plurali”, organizzato dal senatore Antonio Guidi, già Ministro della Famiglia e della solidarietà sociale e sottosegretario alla Salute in precedenti esperienze di Governo, che aveva l’obiettivo di affrontare, fra gli altri, anche un tema spesso dimenticato o dato per sottinteso: quello della sessualità delle persone con disabilità, argomento troppo spesso trattato esclusivamente in un’ottica medicalizzata.
“Corpi plurali” è quindi il tentativo di un ragionamento a tutto tondo sull’importanze del corpo, sulla sua preziosa unicità e un motivo di riflessione in una società come quella occidentale che ha fatto della prestazione uno dei propri mantra invalicabili. Ho pensato così di ragionare per concetti, navigando nelle acque non sempre calme di un mare di complessità e di transdisciplinarietà. Perché qualsiasi discorso sul corpo ha a che fare con la biologia ma anche con la cultura, in una riproposizione classica di un dualismo che lungi dall’essere una frattura dovrebbe rappresentare, invece, una ricchezza.
Separatezza
A un certo punto abbiamo cominciato a pensare che tutto dipendesse dalle strutture del nostro cervello. Emozioni, convincimenti, percezioni, sensazioni: tutte cose che, erroneamente, abbiamo pensato di poter provare – e conseguentemente anche gestire – attraverso semplici circuiti neuronali, in una visione di separatezza corpo/mente che sarebbe stata un segnale inequivocabile del fatto che ci sarebbe stata garantita una sorta di patente di primazia sul resto del mondo. Noi, dotati di cervello sul ponte di comando, e tutti gli altri dall’altra parte. Che errore!
Habitus
La nostra esperienza diretta del mondo la pratichiamo anche attraverso i sensi. Il nostro accesso al mondo, in altri termini, non è mediato da concetti o teorie preesistenti, ma è piuttosto basato su una comprensione diretta delle cose attraverso i nostri sensi e la nostra corporeità.
L’habitus teorizzato da Boudieu è una struttura complessa, mentale e corporea che influisce sulle percezioni, le scelte e le azioni degli individui. In altre parole, l’habitus è un insieme di disposizioni e di schemi di pensiero e di comportamento che si sono formati nella mente e nel corpo degli individui attraverso le loro esperienze e la loro socializzazione all’interno di un particolare ambiente culturale e sociale. Come ci ricorda, “io sono il corpo che ho” la sua affermazione decisa, perché “noi apprendiamo attraverso il corpo.
L’ordine sociale si inscrive nei corpi attraverso questo confronto permanente, più o meno drammatico, ma tale da lasciare sempre largo spazio alla effettività e, più precisamente alle transizioni affettive con l’ambiente sociale”.
Corporeità
Il corpo non è un mero contenitore fisico di organi, né tantomeno il lasciapassare verso orizzonti stereotipati e standardizzati, anzi: la corporeità è un aspetto fondamentale dell’esperienza umana e della percezione del mondo, di ciascun individuo, si riferisce alla nostra esperienza diretta del mondo attraverso il nostro corpo e i nostri sensi. Non possiamo separare la percezione del mondo dal nostro corpo e dalle nostre esperienze corporee, proprio perché il nostro corpo non è solo un oggetto fisico, ma è anche il nostro mezzo per interagire con il mondo.
Il nostro corpo è ciò che ci consente di agire e di essere nel mondo. Singolarmente, e poi in comunità. A livello individuale, quindi, il rapporto con il proprio corpo si può dividere in due condizioni legate tra loro: una oggettiva (il corpo-che-ho), che rappresenta uno spazio determinato, descritto in ogni dettaglio e misurato nella sua forma; l’altra soggettiva (il corpo-che-sono), che richiama invece aspetti personali ed esperienze vissute in prima persona. Questo perché indubbiamente il corpo – veicolo di numerosi significati – vanta una dimensione tanto fisica quanto sociale nel contesto ambientale nel quale si inserisce e si autointerpreta.
Appercezione
Non esiste il cervello, staccato dal corpo, che ci fa stare al mondo. Quanti danni quel “Cogito, ergo sum”, quella differenza netta fra Res cogitans e Res extensa… Anzi, è proprio la capacità del corpo di lavorare attraverso l’appercezione a dare vita e forza al nostro cervello, a fare in modo che i nostri cinquecento milioni di neuroni cambino continuamente forma a seconda della vita e dell’esperienza. L’appercezione si sviluppa nell’organismo attraverso l’interazione tra i sistemi sensoriali e il sistema nervoso centrale. I sensori presenti negli organi di senso, come occhi, orecchie, naso, lingua, pelle, ecc., raccolgono informazioni dall’ambiente esterno e le inviano al sistema nervoso centrale, che le elabora e le integra con le informazioni provenienti da altre fonti, come la memoria e le aspettative, per creare una rappresentazione interna del mondo.
Software/Hardware
È l’integrazione dinamica fra corpo e cervello a chiarire perché il pensiero non è l’equivalente di un software allocato in un hardware, come si vuol far ingenuamente credere sia il nostro corpo. Viceversa, il pensiero è distribuito in tutto il corpo ma anche nell’ambiente, nel dialogo e nell’interscambio così come nella storia e si sprigiona dall’analisi di tutte le dimensioni sensomotorie. Questo significa che la nostra esperienza del mondo è sempre influenzata dalla nostra posizione corporea e dalla nostra interazione con l’ambiente circostante: la nostra stessa percezione del mondo è sempre basata sul nostro corpo e sulla nostra esperienza corporea. Non esiste una percezione oggettiva o neutrale del mondo, ma la nostra esperienza del mondo è sempre influenzata dalla nostra posizione corporea e dalle nostre esperienze passate.
Complessità
Siamo fatti di chimica e di materia organica, ma siamo fatti anche di ambiente, cultura, storia e posizione nello spazio sulla terra. Ciò che ci caratterizza, come singoli e come società, è quindi la risultante di sistemi complessi che – in modo e moto perpetui – agiscono e retroagiscono. Non esiste, quindi, un modello di corpo inteso proprio come un modello, che funzioni meglio, che restituisca percezioni che si presume siano oggettive. Ciascuno vive il mondo attraverso il suo corpo, il suo personalissimo corpo, e vive la realtà esattamente per mezzo del proprio corpo. È in questa frattura forzata, in questa separazione della mente dal corpo che trova spazio, paradossalmente, una rappresentazione del corpo come oggetto di consumo, modellabile a proprio (e soprattutto altrui) piacimento per poter essere considerato tale. Un corpo che non è il corpo di ciascuno di noi ma un oggetto idealizzato e monetizzabile, che si fa merce di scambio invece che nostro avamposto nel mondo che ci circonda.
Relazioni
Il corpo non può essere visto come un’entità separata dal mondo, ma va piuttosto considerato come parte integrante dell’ambiente circostante, in una relazione continua con esso: il corpo non solo percepisce l’ambiente, ma lo costruisce e lo modifica attraverso l’azione e l’esperienza. In questo senso, il corpo non è solo un prodotto della cultura, ma contribuisce attivamente alla sua creazione e alla sua trasformazione. Fra il nostro corpo e l’ambiente, insomma, esiste una stretta interconnessione: il corpo è un’entità aperta e interattiva, in continua relazione con l’ambiente circostante. Quando curiamo l’ambiente – e la cura è anche culturale – in fondo curiamo i nostri corpi, curiamo noi stessi. Ma è una relazione biunivoca: quando cadono retaggi e stigmi vari, e ciascun corpo viene restituito e valorizzato per il suo stare nel mondo, anche l’ambiente cura i nostri corpi. Restituendo a ciascuno di noi il proprio valore, unico e irripetibile.
Esistenza
In una società che ha fatto della performatività ossessiva, edonistica e alienante uno dei propri capisaldi; in una società che misura e valuta le persone (e già questo sarebbe di per sé fallace) per mezzo delle abilità, chiedendo loro di essere skillati – orribile neologismo – è chiaro che le ripercussioni sui nostri corpi, sui corpi di tutti noi, possono essere devastanti. Perché in fondo ci viene chiesto di funzionare, invece di esistere. Winner e looser, vincitori e sconfitti: questo il pericoloso mantra. A farne le spese sono in primo luogo i giovani, nei loro percorsi di formazione ma soprattutto in quelli di socializzazione, nei quali cresce il messaggio imperioso dei devi essere performante, devi essere efficiente, la tua vita è una risorsa che non puoi permetterti di sprecare, anche perché qualsiasi ritardo o malfunzionamento non può che essere tua responsabilità.
Se la vita è vista come una impresa, allora il fallimento non può che essere colpa di chi resta indietro. Ecco, faccio mia questa geniale lettura della realtà proposta da Miguel Benasayag, filosofo e psichiatra franco-argentino, che nell’incipit di un suo libro così recita: “Non abbiamo più tempo di prender tempo: questa è oggi la parola d’ordine nelle nostre società e nelle nostre vite”. Vite, appunto, a cui si chiede di funzionare, quando il loro primo diritto è quello di esistere.
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