La professoressa Rita Librandi
INDICE DEI CONTENUTI
- 0.1 Professoressa Librandi, le parole nascono, vivono e muoiono: ma quali sono oggi le parole scomparse?
- 0.2 L’uso e l’abuso dei termini inglesi in che modo cambia la lingua?
- 0.3 E l’altra questione da tenere in conto?
- 0.4 Che ruolo hanno il latino e il greco in particolare sulle nuove parole?
- 0.5 C’è differenza nelle parole di genere?
- 0.6 E c’è, invece, un linguaggio generazionale?
- 0.7 Come parleremo domani quando l’intelligenza artificiale sarà diffusa?
- 0.8 E come possiamo facilitare la comprensione dei testi e fare in modo che le persone riescano a capire ciò che leggono?
- 0.9 A proposito di turpiloquio, si è abbassata la soglia nell’uso delle parolacce?
- 0.10 La conversazione volge al termine, un’ ultima curiosità storica (e non solo) riguarda le donne e l’Accademia della Crusca…
- 1 IL PROFILO DI RITA LIBRANDI
L’invasione di anglicismi nel nostro linguaggio, parla la professoressa Rita Librandi, vicepresidente dell’Accademia della Crusca
Sì, è vero: sono tanti, troppi gli anglicismi che gli italiano usano, spesso a sproposito, qualche volta in modo fastidioso. Ma perché? «Si adoperano per moda, spesso per provincialismo», dice Rita Librandi professoressa emerita di Storia della lingua italiana e Linguistica italiana e vicepresidente dell’Accademia della Crusca. Di questo ma anche dell’inglese in ambito scientifico e internazionale, di come sta cambiando la nostra lingua, di parole scomparse e di quelle di genere, del lessico generazionale e non solo abbiamo parlato con la professoressa.
Professoressa Librandi, le parole nascono, vivono e muoiono: ma quali sono oggi le parole scomparse?
«Intanto diciamo che c’è un patrimonio lessicale che sta sparendo dalla competenza dei più giovani, perché nella Storia della nostra lingua per molti secoli l’italiano non ha avuto una rapida evoluzione, analoga a quella delle altre lingue europee occidentali. Chi aveva una istruzione medio alta e aveva fatto una lettura non estemporanea, non superficiale dei testi letterari era in grado di capire termini che erano rimasti inalterati per secoli. Oggi comincia a non essere più così. Faccio un esempio: quando ascoltiamo l’opera lirica, nei libretti sono usuali le parole della nostra tradizione letteraria, ma ciò costituisce una difficoltà per i più giovani. Ricordo una sera a teatro, quando, non so più in quale opera, venne fuori sul display la parola germano (che vuol dire “fratello”): il ragazzo accanto a me mi chiese cosa c’entrassero i tedeschi con quanto stava accadendo sulla scena. È un esempio tra i tanti; tuttavia un po’ ci rammarichiamo, perché è sempre più difficile comprendere la nostra letteratura, ma un po’ dobbiamo essere soddisfatti, perché ciò vuol dire che ormai anche la nostra lingua, come tutte le lingue moderne, va evolvendosi. Tra le parole scomparse si potrebbero citare facondia, che indica la facilità nel parlare, l’eloquenza, o anche abbacinare (“rendere cieco”) e meditabondo. Una volta, anche tra amici quando si vedeva una persona che non era propensa a parlare si diceva per scherzare “sei meditabondo”. Ora non più. Tutto ciò fa parte del divenire delle lingue che non possiamo certo arrestare. Semmai quello di cui ci dobbiamo rammaricare è la povertà lessicale dei nostri giovani».
L’uso e l’abuso dei termini inglesi in che modo cambia la lingua?
«Sugli anglicismi dobbiamo fare dei distinguo. Gli anglicismi che vengono usati quotidianamente lasciano il tempo che trovano. Si adoperano per moda, spesso per provincialismo e diciamo che non costituiscono una vera aggressione alla lingua. Più preoccupante è il ricorso quasi esclusivo all’inglese per i tecnicismi scientifici. L’inglese è sicuramente oggi la lingua della comunicazione internazionale tra studiosi e questo va bene. In varie epoche le lingue veicolari si sono alternate. Nel Cinquecento era l’italiano, nel Seicento lo spagnolo, nel Settecento il francese e ora l’inglese. L’inglese quindi bisogna sicuramente conoscerlo ma conoscerlo bene, non scimmiottarlo. Non dobbiamo, però, cedere completamente all’inglese la formazione delle parole di ambito scientifico. Questa tendenza ad avere corsi universitari esclusivamente in inglese, ad esempio, è dannosa. Si può cercare di erogare alcuni insegnamenti in inglese ma bisogna conservarne altri in italiano. Perché diciamo questo? Pensiamo alla differenza che esiste nella nostra penisola tra italiano e dialetti. I dialetti della penisola italiana sono tutti lingue e discendono tutti dal latino. Hanno tutti una propria morfologia (come la coniugazione dei verbi o la declinazione dei nomi) indipendente dall’italiano. Il punto, però, è che noi non usiamo i dialetti per parlare di matematica o genetica o per scrivere una legge dello Stato, perché nei secoli i dialetti non hanno costruito un lessico specialistico. Di conseguenza, se priviamo l’italiano di questa facoltà di coniare termini specialistici andiamo verso la sua dialettizzazione. È un problema che riguarda anche le altre lingue europee e di cui si sta occupando la Commissione per le lingue della UE».
E l’altra questione da tenere in conto?
«Il secondo aspetto da considerare è il malcostume dei politici e dei media, che a volte senza ragione si servono di anglicismi che poi vengono ripetuti dalla popolazione. Sono esclusivamente fattori di moda perché ci sono termini italiani perfettamente equivalenti. Il prossimo step è il prossimo passo: ma perché step deve essere più bello di passo? Il ministero del welfare è il ministero delle politiche sociali. Gli esempi potrebbero continuare. L’Accademia della Crusca ha un gruppo di lavoro che si chiama Incipit (volutamente con termine latino) e che indica quali possano essere le traduzioni degli anglicismi, gli equivalenti italiani e lo fa soprattutto quando vede comunicazioni dell’amministrazione pubblica, disposizioni legislative che partano dal governo ricche di espressioni inglesi. Ma la comunicazione con i cittadini non dovrebbe essere la più trasparente possibile? Quanti anglismi abbiamo sentito durante la pandemia? La dose booster, per esempio, e non solo».
Che ruolo hanno il latino e il greco in particolare sulle nuove parole?
«Ormai poco e niente per ciò che riguarda la coniazione dei tecnicismi; i termini della medicina, per esempio, non vengono più attinti dal latino. È giusto che gli scienziati non solo quelli che si occupano di scienze dure ma anche ad esempio i linguisti, si servano dell’inglese tra loro a livello internazionale, ma quando devono parlare con il cittadino devono usare un linguaggio chiaro, trasparente. Questo non significa che si debba abbandonare lo studio del latino e del greco che ci trasmettono storia, cultura, identità, che ci segnalano nessi importanti con la nostra storia e la cultura attuale. Che veramente poi si possa oggi reintrodurre lo studio del latino alla scuola media mi sembra un’aspirazione un po’ irrealistica. Certo va conservato bene alle superiori, ma questo è un altro discorso».
C’è differenza nelle parole di genere?
«Secondo me la scrittura è neutra. Se si esaminano le scritture femminili del passato, è possibile osservare metafore e immagini che, legate alla vita delle donne, testimoniano la loro storia, ma ciò non vuol dire che le parole o i costrutti sintattici cambino se adoperati da mano maschile o femminile. Lo stesso vale per il parlato. Posso solo dire (scherzosamente ma non troppo) che le donne hanno quasi sempre un eloquio più sciolto ed efficace».
E c’è, invece, un linguaggio generazionale?
«Quello sì esiste, perché le generazioni giovanili avvicendandosi adottano un lessico che aiuta il riconoscimento reciproco. È stato definito gergo giovanile. Sono di solito i gerghi legati a una fascia d’età che va dagli undici ai diciassette/diciotto anni. Poi si abbandonano. I termini adoperati 15 anni fa dagli adolescenti rimangono nella memoria di chi oggi ha trent’anni, ma non sono più riconosciuti o compresi da chi oggi di anni ne ha sedici. Dal punto di vista della sintassi, dell’organizzazione del testo non ci sono differenze con il parlato comune e informale; ciò che fa la differenza è il lessico. Si creano delle parole spesso effimere, che non hanno vita lunga, ma che talvolta riescono a resistere e a diffondersi: si pensi a cringe che con il significato di ‘imbarazzante’ si sente oramai anche nei dialoghi televisivi».
Come parleremo domani quando l’intelligenza artificiale sarà diffusa?
«Per ora l’intelligenza artificiale si serve delle parole che noi abbiamo già inserito nella rete. L’intelligenza artificiale che genera testi attinge informazioni da altri testi che trova nel mare magnum della rete, dove sono stati inseriti da esseri umani. Studi recenti che stanno analizzando l’italiano dell’intelligenza artificiale rilevano che molto spesso sintassi e organizzazione del testo sono influenzati dalla sintassi inglese, ma anche questo dipende da ciò che si trova già nella rete. Per ora è così, nel futuro non si sa. Bisogna, in ogni caso, stare molto attenti perché almeno una volta su cinque l’intelligenza artificiale compone testi inattendibili, mettendo insieme informazioni che non c’entrano nulla con ciò che abbiamo chiesto».
E come possiamo facilitare la comprensione dei testi e fare in modo che le persone riescano a capire ciò che leggono?
«La questione è antica e molto difficile. È ciò che Tullio De Mauro chiamava la de-alfabetizzazione degli italiani e che purtroppo è ben percepibile tra i giovani. Non tutti. I giovani non vanno demonizzati. Sicuramente rispetto ai loro coetanei degli anni Cinquanta/Sessanta dominano meglio la comunicazione quotidiana e scrivono veramente tanto. Ma dove? Sui social, nelle chat usando sempre un registro colloquiale, vicino al parlato. Poi però quando si tratta di leggere e comprendere testi complessi viene fuori un problema grave. Comprendere un testo è un’operazione complessa richiede conoscenza del lessico, del significato delle parole, non solo quelle del quotidiano e della vita personale, ma anche i termini astratti della riflessione teorica. Chi legge deve essere anche capace di cogliere il senso che le parole assumono nel contesto in cui le parole sono adoperate, di riconoscere ciò che collega le unità del testo, di agganciare i contenuti del testo a conoscenze pregresse, di identificare il punto di vista di chi ha scritto: sono operazioni che sembrano scontate, ma non è così e nell’apprendimento della lettura si nota che qualcosa non funziona più. Non è neanche giusto dare la colpa agli insegnati; i docenti che si impegnano con grande competenza sono tantissimi. Va anche considerato che da venticinque/trenta anni a questa parte ci troviamo di fronte ai primi insegnanti che non hanno più il monopolio delle conoscenze. Oggi, infatti, i giovani hanno tantissime fonti a cui attingere, ma spesso si tratta di fonti inaffidabili percepite come autorevoli. Gli insegnati devono guidarli anche tra le nuove fonti di conoscenza; il compito si aggrava ma certo è alla scuola che spetta ancora il compito di assicurare una piena competenza dell’italiano. Non c’è dubbio che il numero delle ore dedicato all’italiano dovrebbe aumentare».
A proposito di turpiloquio, si è abbassata la soglia nell’uso delle parolacce?
«Si è abbassata la soglia ahimè e ancora una volta l’esempio viene dall’alto: in contesti formali capita di ascoltare anche parole che un tempo sarebbero state considerate del tutto inappropriate. Parliamo sia di termini che consideriamo innocui come carognata, un colloquialismo da usare in contesti informali che un tempo sarebbe stato considerato inopportuno in una comunicazione formale ma che ma ormai è stato sdoganato, ma siamo andati oltre e stanno arrivando dall’informalità alla formalità anche parole come cazzata e altre simili che non oso pronunciare. Però l’autorizzazione parte soprattutto da alcune trasmissioni televisive, dove i partecipanti litigano tra loro e arrivano a pronunciare espressioni che non sarebbero adeguate in quel contesto».
La conversazione volge al termine, un’ ultima curiosità storica (e non solo) riguarda le donne e l’Accademia della Crusca…
«La prima accademica è stata Caterina Franceschi Ferrucci, letterata, poetessa e patriota, nominata socia corrispondente nel 1871, viene seguita nel 1893 dall’archeologa Ersilia Caetani, anche lei socia corrispondente. Si deve attendere il secolo successivo per avere la nomina delle accademiche Franca Brambilla Ageno nel 1970 e Rosanna Bettarini nel 1977. Da quel momento le accademiche sono divenute sempre più numerose e hanno cominciato ad assumere anche ruoli importanti. L’Accademia è un posto di studio, di confronto non si avverte il maschilismo».
IL PROFILO DI RITA LIBRANDI
Rita Librandi è professoressa emerita di Storia della lingua italiana e Linguistica italiana ed è vicepresidente dell’Accademia della Crusca. Dal 2014 al 2020 è stata prorettrice alla ricerca dell’Università di Napoli L’Orientale e dal 2012 al 2017 presidente dell’Asli (Associazione per la storia della lingua italiana).
Ha tenuto lezioni, interventi a convegni e conferenze in università europee, nordamericane e cinesi ed è stata visiting professor presso la York University e, per due volte, presso l’University of Toronto, che nel 2011 le ha assegnato l’Emilio Goggio chair.
Tra i suoi nuclei di ricerca si ricordano la formazione della lingua scientifica nel Due-Trecento; le scritture religiose femminili; l’italiano della Chiesa e, più di recente, l’uso di italiano e dialetto in autori meridionali contemporanei.
Tra le pubblicazioni più recenti si segnalano soltanto L’italiano della Chiesa (Roma, Carocci 2017); Più di sacro che di profano: alcuni esempi di scrittura femminile (Firenze, Cesati 2020); Profilo storico della lingua italiana (Roma, Carocci 2023), e la cura del volume L’italiano: strutture, usi, varietà (Roma, Carocci, 2019).
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