Charles Baudelaire era nato nel 1821
6 minuti per la letturaI POETI non muoiono mai, come le loro parole incise sulle pietre del tempo e scavate nelle pieghe dell’anima. Di poesia e poeti – con un omaggio dovuto a Charles Baudelaire nato a Parigi il 9 aprile di 200 anni fa – parliamo con John Taylor, scrittore americano, critico letterario, poeta e traduttore che ha scelto ormai da anni di vivere in Francia.
Taylor, “[…] Il Poeta è come lui, principe delle nubi/che sta con l’uragano e ride degli arcieri; / esule in terra fra gli scherni, /impediscono/ che cammini le sue ali di gigante.”, sono versi tratti da “L’albatros”, ma se lei dovesse fare un ritratto di Baudelaire uomo e poeta quali parole sceglierebbe ? E quali versi?
«Quando ero uno studente di matematica all’università e avevo diciannove anni, l’unica lingua straniera che conoscevo era il tedesco. Ma ero attratto dalla poesia francese a causa delle traduzioni in prosa(!) di poesie in versi che avevo trovato in un’antologia. Ho comprato un dizionario bilingue. È proprio questa poesia, “L’albatros”, che ho cercato di “ritradurre”, verificando ogni parola nel dizionario. Tutto questo mi fa sorridere ora che vivo in Francia dal 1977, ma posso aggiungere che, da quel giorno del 1971, le righe finali – “[…] impediscono / che cammini le sue ali di gigante” – sono rimaste per me una terribile verità che deve essere affrontata da ogni poeta. Baudelaire conosceva intimamente la sfida sollevata dalla sua immagine: qual è il rapporto tra la voglia di scrivere e il problema di “come vivere, come stare, in questo mondo”?».
“I fiori del male”, pietra miliare di Baudelaire è uno dei classici della letteratura francese e mondiale, che lettura ne dà lei?
«L’idea essenziale ruota intorno al concetto che il poeta deve scrutare anche nell’oscurità per vedere quale luce, forse, si nasconde in essa, come suggerisce il titolo stesso».
“Bohémien” e “poeta maledetto”, Baudelaire ha indicato la strada del simbolismo in versi e ha fatto dello “spleen” (la malinconia, l’inquietudine) una delle chiavi di volta della sua cifra stilistica. Che peso hanno l’infelicità, lo struggimento, l’insoddisfazione, la ribellione nell’atto compositivo del poeta francese?
«Da tempo mi ha colpito il fatto che, nonostante la sua malinconia, Baudelaire abbia lavorato sodo, producendo non solo le sue poesie e le sue poesie in prosa, ma anche saggi critici su temi artistici e letterari, con dettagli precisi e analisi estremamente percettive. Questa immagine di Baudelaire come “bohémien e “poeta maledetto” non deve mettere in ombra le altre sue qualità. Forse, la sua inquietudine – ogni volta che cresceva – creava la tensione necessaria alla sua creazione poetica. Ma è impossibile recuperare tutta la complessità dei suoi atti creativi, che richiedevano anche energia, tempo, rigore e concentrazione».
“È ora di ubriacarsi! Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre! Di vino, di poesia o di virtù, come vi pare.” Cos’è il tempo per un poeta come Baudelaire ?
«Il tempo più intenso per un poeta è forse quello della scrittura: la prima bozza in un taccuino, le revisioni, la lotta per arrivare a un testo “giusto”. È possibile che Baudelaire abbia vissuto ancora più intensamente in quei momenti che in qualunque esperienza esaltata o sensuale. Non lo so. Ha lodato spesso l’ebbrezza di un singolo momento del vivere. Tuttavia, quest’ultimo orientamento mi colpisce come un’aspirazione, mentre la scrittura appare come un’esperienza potenzialmente più profonda per afferrare la realtà con alcune parole: i nostri strumenti unici, fragili».
“Siamo sempre, tragicamente soli, come spuma delle onde che si illude di essere sposa del mare e invece non ne è che concubina.” E la solitudine?
«C’è anche la presenza della sua amante, Jeanne Duval, in alcune poesie. La poesia spesso si nutre dell’eterno conflitto tra la solitudine necessaria per creare e l’autentica ricerca dell’altro o di qualcos’altro. Questa ricerca, che si proietta lontano dalla solitudine, dal sé, è probabilmente una delle motivazioni di quasi tutta la creazione poetica, anche se la poesia che ne risulta rimane letteralmente egocentrica».
“Tu, come lama di coltello/ sei entrata nel mio cuore in lacrime!/ Tu, forte come una torma/ di demoni folle e in ghingheri,/[…] ”, da “Il Vampiro”. Che cos’è l’amore per un poeta maledetto?
«Come detto, mi sembra che anche queste immagini dure partecipino alla ricerca autentica dell’altro e della vera natura dell’amore».
Veniamo al presente. Quanto il mondo di oggi ha bisogno di poeti e poesie?
«La poesia cerca di preservare ciò che è rimasto prezioso dentro di noi, e ciò che tanti aspetti della vita contemporanea cercano di far scomparire. Questo è vero anche quando la poesia esplora ciò che è negativo negli esseri umani. In effetti, oggi uno dei compiti cruciali per i poeti è fare i conti con le negatività e vedere cosa si può trarre da esse. Come ho già accennato, gli interrogativi principali sono due: quale luce è nascosta nell’oscurità? Cosa ci può insegnare il buio?».
La poesia al tempo di un cinguettio di Twitter?
«Se si confronta un cinguettio con una brevissima poesia – mi vengono in mente alcuni versi di Sandro Penna, anche di Franca Mancinelli, e le poesie frammentarie che Lorenzo Calogero ha lasciato nei suoi ultimi taccuini –, la differenza è enorme. Un cinguettio è un’affermazione, un’opinione, e in questo senso è “chiuso”. La poesia genuina, invece, cerca spesso di esprimere un’apertura, qualcosa di frammentario o incompleto, una domanda a cui non è possibile rispondere facilmente o affatto, un’ambiguità fondamentale, ciò che non può essere riassunto, ciò che rimane su una soglia oltre la quale qualcosa sembra esistere. La poesia vive nei livelli profondi della nostra esistenza, del mondo e del cosmo. Vive dentro di noi anche rispetto agli altri per i quali proviamo emozioni sottili e intricate. Si tratta di momenti durante i quali abbiamo intuizioni ma non certezze».
Per chiudere, veniamo a lei: qual è la sua ultima sorpresa editoriale?
«La sorpresa è pronta per essere svelata. Si tratta di un libro italiano, “Transizioni” (Lyriks edizioni, diretta da Nino Cannatà, ndr), con le meravigliose illustrazioni di un amico, l’artista greco Alekos Fassianos. Mi commuove il fatto che questo libro venga pubblicato in Calabria, regione a me cara sin dai tempi del mio lavoro sulla poesia di Lorenzo Calogero».
Lei ha tradotto molti poeti francesi e tre italiani: Lorenzo Calogero, Alfredo de Palchi e Franca Mancinelli. Se non fosse stato John Taylor quale poeta sarebbe voluto essere?
«Una risposta la si trova in parte nel mio libro “Oblò” – in cui evoco un viaggio dal Pireo all’isola di Samos, nel 1976, durante il quale ho deciso di dedicarmi alla poesia – e in parte in questo nuovo libro, “Transizioni”. Il problema non è essere questa o quella identità, ma piuttosto stabilire un autentico rapporto esplorativo – attraverso la lingua – con la natura, con l’essere, con le emozioni, con gli altri, con il tempo che ci viene dato da vivere. Un tale rapporto è sempre transitorio, istantaneo e inaspettato, e la responsabilità del poeta è registrare quei momenti intensi e miracolosi. Quando ciò accade, il poeta è un intermediario – non del tutto un soggetto nel senso forte di “autore” – almeno nello stato iniziale di “ascolto” e accoglienza di ciò che viene».
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