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L’IMMAGINE del filo spinato che attraversa la Storia si ripresenta vivida in occasione della Giornata della Memoria: il 27 gennaio. Di quel che significò e significa ancora la Shoah e non solo, ne parliamo con Francesco Soverina.
Professor Soverina, cos’è stata la Shoah?
«Shoah è la parola con cui gli ebrei designano il genocidio perpetrato a loro danno dal nazismo durante il secondo conflitto mondiale. Si è trattato di uno sterminio di immani proporzioni, che segna una gravissima battuta d’arresto del processo di civilizzazione, che mette a nudo – in modo inquietante – le potenzialità distruttive della modernità tecnico-industriale. La sua tragica peculiarità è riconducibile, oltre alla vastità del programma omicida, all’impiego di tutte le risorse proprie di uno Stato nella fase avanzata dello sviluppo capitalistico. Sono questi i fattori che connotano uno sterminio considerato unico, perché mai prima di allora uno Stato moderno prende la decisione di distruggere un intero popolo. Uno sterminio, paradigma della “barbarie civilizzata”, perché rivolto “contro la diversità umana” e che occupa una sinistra centralità nella novecentesca “età degli estremi” (E. J. Hobsbawm). Va ricordato, inoltre, che genocidio è un termine nuovo, coniato nel 1944 dal giurista polacco di origine ebraica Raphael Lemkin per designare la drammatica novità di quanto stava accadendo nell’Europa piegata sotto il “tallone di ferro” del Terzo Reich».
“Olocausto/Olocausti. Lo sterminio e la memoria” è un libro da lei curato, perché questo titolo?
«Perché – a ben vedere – quello messo in atto dal nazismo e dai suoi alleati è stato uno sterminio caratterizzato dalla pluralità delle vittime, dei carnefici e dei metodi di eliminazione. L’assassinio di massa degli ebrei e di quanti sono ritenuti una minaccia per l’integrità razziale e politica del Terzo Reich ha richiesto la costruzione di una complessa macchina organizzativa, l’adozione di tecniche di eliminazione che vanno dalle fucilazioni sommarie alla gasazione nelle “fabbriche della morte”. In nome di un imperativo biologico-razziale o ideologico-politico vengono liquidati, a partire dai disabili tedeschi, non solo ebrei, ma sinti e rom, oppositori politici, Testimoni di Geova, omosessuali, “sotto-uomini” slavi e prigionieri di guerra sovietici. Senza stilare una graduatoria delle sofferenze, disabili, ebrei, sinti e rom vengono braccati e perseguitati solo per la colpa di esistere. Per loro, e solo per loro, non c’è posto alcuno nell’utopia negativa del nazismo».
Quale storia le è rimasta dentro e perché?
«Fra le tante, in cui mi sono imbattuto nei miei studi, quella del bambino disabile, il cui omicidio “terapeutico” segna l’inizio della pagina dello sterminio. Per i nazisti quel piccolo tedesco rappresentava una “vita indegna di essere vissuta”, una “bocca inutile”, da annientare al fine di tutelare la propria “comunità etnico-popolare”, fondata su vincoli di sangue. La sua uccisione, come quella di decine di migliaia di disabili e del milione e mezzo di bambini ebrei, è lo sbocco nefasto dell’ostilità pseudoscientifica nutrita per oltre cinquant’anni, dalla fine dell’Ottocento, nei confronti dei “diversi”. La ragione di fondo per cui questa storia, queste storie mi accompagneranno per tutta la vita risiede nel raccapricciante destino a cui tanti esseri inermi, innocenti sono stati condannati; una sorte, la loro, che rinvia, da un lato, al tema dell’ “innocenza della colpa”, dall’altro agli effetti esiziali del veleno inoculato da una “fede feroce” (E. Montale)».
Cosa la storia di quei fatti di ieri può ancora insegnare agli uomini di oggi?
«In primo luogo – vede – occorre far sì che le lezioni della storia siano conosciute e recepite. In relazione a quei giganteschi crimini contro l’umanità, non mi stancherò mai di ripetere che bisogna sbarazzarsi del convincimento autoassolutorio secondo cui lo sterminio nazista sia stato opera di un pugno di fanatici agli ordini di un folle capo carismatico. Accanto agli aguzzini, ai sadici esecutori ci sono stati tantissimi “uomini comuni”, tra cui i grigi “burocrati della morte”, che con un semplice tratto di penna hanno cancellato milioni di vittime. È il tema, lucidamente enucleato da Hannah Arendt, della “banalità del male”».
Uno dei suoi libri si intitola “La difficile memoria. La resistenza nel Mezzogiorno e le quattro giornate di Napoli”. Difficile memoria, perché ?
«Il titolo si riferisce al travagliato, incerto radicamento del “paradigma antifascista” nel Mezzogiorno. È trascorso molto tempo prima che un consistente numero di napoletani si riappropriasse della memoria delle Quattro Giornate, un capitolo cruciale della loro storia. Così come – e ciò non suoni oggi sorprendente – sono trascorsi molti decenni prima che Elisa Springer, Nedo Fiano, Pietro Terracina, Liliana Segre rompessero il muro del silenzio per scardinare la fortezza dell’indifferenza. Un compito arduo, nel quale sono stati preceduti da Primo Levi, il grande testimone e interprete della Shoah, che ha speso una vita per dire “l’indicibile”, per decifrare il “buco nero” di Auschwitz».
Se dovesse parlare ai ragazzi di quanto sia importante conoscere la Storia per leggere il presente, quale frase e quale scrittore sceglierebbe?
«Mi viene subito in mente l’illuminante frase di uno dei maggiori storici del Novecento, Marc Bloch, fondatore – insieme con Lucien Febvre – della scuola delle “Annales”, che si è resa protagonista di una vera e propria rivoluzione storiografica: “L’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato. Forse, però, non è meno vano affaticarsi a comprendere il passato ove nulla si sappia del presente”. In effetti, ad onta di quanto ancora persiste nel senso comune, la storia non si risolve nella conoscenza degli eventi passati, dal momento che gli storici volgono lo sguardo all’indietro a partire dal tentativo di comprendere dinamiche e questioni dell’età in cui essi vivono. Ci si rivolge al passato per cercare di rispondere a domande e problemi sollevati dal presente, per coglierne le radici. A mio avviso, la storia – “la scienza degli uomini nel tempo” (Marc Bloch) – mette a fuoco lo spessore del presente, ce ne mostra la profondità complessa e multiforme. Infine, è significativo che a svolgere le considerazioni, consegnate a quel capolavoro sul piano metodologico che è l’Apologia della storia, sia stato un medievista della levatura di Bloch, il quale non ha esitato a cimentarsi con la storia del suo presente in ben due occasioni, l’ultima delle quali per spiegare le ragioni della Strana disfatta della Francia, travolta nel 1940 dalla Germania hitleriana. Finirà – non a caso – i suoi giorni, il 16 giugno 1944, fucilato dai nazisti, perché partigiano ed ebreo».
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