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Vittorino Andreoli

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«GIUNTI alla mia età si scopre di non essere un uomo, ma una storia». Con queste parole il professor Vittorino Andreoli, che da poco non solo ha compiuto 80 anni ma ha anche pubblicato il suo ultimo libro “80 anni di follia. E ancora una gran voglia di vivere” (Rizzoli, 2020), racconta cosa sia per lui davvero la vecchiaia e come la società contemporanea la consideri, anche alla luce dell’ultima tragedia che ha colpito il mondo intero.

Una vita – quasi sessant’anni – spesa per la cura e la comprensione dei suoi “matti” a cui tiene ancora tanto; è un uomo con una gran voglia di fare, che osserva la realtà con lo sguardo di chi, attraverso la consapevolezza dell’età, può affrontare liberamente qualsiasi riflessione esistenziale.

Professore, l’idea predominante nella società contemporanea, dove c’è una corsa spasmodica a restare per forza giovani e a cercare di fermare il tempo, è che la vecchiaia sia l’anticamera della morte. Considerata quasi come un flagello. Nel suo senso pieno e reale invece, che cos’è?

«C’è da fare una premessa. In tutte le società cosiddette primitive, è stato dimostrato che la figura del vecchio fosse associata a quella del saggio. Io stesso – che ho vissuto per un periodo in Africa – ho potuto constatare come questa figura in un villaggio rappresentasse l’autorità. Era quell’uomo a cui si portava massimo rispetto perché conoscitore non solo della storia ma della vita, proprio perché aveva più anni. Inoltre, se diamo uno sguardo alla cultura ebraica e quindi all’Antico Testamento, possiamo notare come i vecchi fossero il punto di riferimento della storia di un popolo. Alla luce di questo, possiamo dire che è una caratteristica della civiltà occidentale considerare la vecchiaia l’anticamera della morte, vista come “la vita che lenta si spegne come una candela”. La vecchiaia – e parlo da vecchio – così come viene vista in questo periodo, è una novità assoluta. Basti pensare che fino alla Seconda Guerra Mondiale l’età media di un essere umano non superava i quarantacinque anni. La vecchiaia di oggi, invece, ha un’età media che si aggira intorno agli ottant’anni e più, è quasi raddoppiata anche grazie ad una scienza medica che ha permesso e permette di arrivarci in ottime condizioni e a una condizione economica molto più favorevole del passato. Una nuova vecchiaia che va definita come l’ultimo capitolo di una vita, di un libro. Di solito l’ultimo capitolo di un libro è sempre quello più interessante, perché se ne capisce il senso. Confrontare la vecchiaia con l’età della giovinezza è sbagliato. Il giovanilismo a tutti costi è il desiderio, presente in alcune persone vecchie, di nascondere la loro età cercando di sembrare più giovani. Questa è una malattia perché si vuole sembrare quello che non si è, mentre è bellissimo essere vecchi».

Proprio perché viviamo in una società in cui il numero delle persone anziane è elevato, in che modo si può riscrivere il loro ruolo all’interno di una realtà in cui la liquidità esistenziale sta facendo in modo che i punti di riferimento manchino e in cui la digitalizzazione sta riscrivendo il modo di concepire l’esistenza?

«Una società che non considera positivamente i vecchi è una società fallita, è una società di idioti. Certamente se la nostra società viene considerata solo dal punto di vista dell’economia è chiaro che i vecchi non partecipano attivamente alla produttività. Questo concetto errato vale per quella civiltà che vuole fondarsi esclusivamente sull’economia. Ma la vita non è fatta solo di denaro. Considero la ricchezza la più grande patologia sociale perché impedisce di vedere il patrimonio di una civiltà, dove al suo interno si può trovare anche la persona anziana, che è interessata non più all’io. Io sono vecchio e so di non dover dimostrare nulla a nessuno. Non devo fingere, sono quello che sono».

Quindi se il potere e il denaro fanno perdere di vista una società fondata sui valori, in questo contesto storico come se ne può riscrivere una nuova fondandola sul senso etico delle cose?

«Nella Grecia antica, un grande uomo, Platone, distingueva le leggi dai princìpi. I princìpi non sono dentro la storia ma dentro l’umanesimo che è l’insieme di ciò che serve a vivere in pace. Platone parlava della felicità di tutti ma questa è un’utopia perché non è stata ancora realizzata. Le leggi servono per affrontare problemi storici. Quelli della cronaca, immediati. E per questo Platone aveva pensato alla res pubblica, a questo nuovo sistema di gestione della città, alla politeia. Invece i princìpi non sono parte della politica, perché fanno parte dell’esistenza. Platone annoverava tra questi, ad esempio, il rispetto della vita, il rispetto dell’altro. Ad esempio nei suoi “Dialoghi” tutti parlano, poi arriva il maestro che conduce a una visione condivisa. Le idee non sono una questione da legiferare. Il pensare e la libertà di pensare non possono essere legiferati, come direbbe Platone. Quindi come si fa ad impostare una differenza tra quella che è una civiltà e una società. La civiltà guarda ai bisogni dell’uomo, la società – questa di oggi, ad esempio – guarda agli interessi che sono dei più forti. Una società vergognosa, dalle enormi differenze sociali e ingiustizie. C’è chi ha l’inutile e chi non ha il necessario. A tutto questo si aggiunge il voler escludere la persona anziana. Se penso a come i vecchi sono stati considerati in questa grave crisi che è la pandemia, mi indigno perché sono diventati materiale di terza categoria. Questo ci mostra le fondamenta sulle quali si edifica questa realtà: l’economia. Anche in questo momento in cui è in gioco una certa esistenza, tra la vita e mantenere l’economia si è scelta quest’ultima. Il ragionamento è stato e continua ad essere: “Che vita sarebbe senza benessere?” Sarebbe una vita. Le persone povere vivono. Il criterio scelto da questa società, è stato quello di dare un peso all’“ossigeno” e al “denaro” e di scegliere quest’ultimo».

Professore, proprio perché ci sono molti anziani anche la medicina si sta evolvendo non solo nell’essere predittiva ma anche per cercare di contrastare quelle malattie degenerative come l’Alzheimer. Proprio la settimana scorsa si è tenuta una giornata commemorativa per fare il punto della situazione su questa malattia che spegne i ricordi. Quando scompaiono che cosa rimane?

«Quando parliamo di memoria dobbiamo farlo al plurale. Non ne esiste solo una, ma diverse: c’è quella dei numeri, delle parole, delle immagini, quella vista come ricordo. C’è la memoria biografica, quella della propria storia, la memoria dei sentimenti. Nell’Alzheimer c’è la perdita della memoria dell’identità, ma non quella del sentimento».

Crede nell’aldilà?

«Questo è un tema molto difficile. Se partiamo dall’origine dell’universo e dall’origine di ciascuno di noi che si lega alla natura, a questo frammento di universo che si chiama Terra, può essere associata al Big Bang, al Caso oppure a un Dio. Se dovessi inginocchiarmi, preferirei farlo di fronte a un Dio. Credo molto nell’uomo, io amo l’uomo e sono convinto, come diceva Platone, la trascendenza sia un segnale che è dentro l’uomo. Un’esistenza che abbia altre leggi è possibile. Einstein, ad esempio, che era ebreo ma non praticante, quando gli chiedevano se credesse in un Dio o nell’aldilà, rispondeva: “Noi fatichiamo molto per scoprire una piccola legge dell’universo. Ma penso sempre all’infinità di leggi che esistono e che sono state fatte”. La bellezza risiede nel sapere che c’è ancora un po’ di mistero».

Quanto rumore fanno le parole nella società attuale piena di conflitti più che di ideali?

«Sono fondamentali. Bisogna cominciare a controllare il loro significato. Ad esempio, una delle parole che genera guerra è verità perché chi è convinto di averla, tende ad imporsi. La verità bisogna cercarla. Discussione è una parola terribile, meglio dire conversare».

E la parola amore?

«L’amore, non solo quello di coppia ma anche quello tra padre e figlio, o verso gli altri, è solidarietà, rispetto. Diventa il segno di un legame».

Si definisce un “pessimista attivo”. Come si fa ad esserlo?

«Sono un pessimista attivo perché pur vedendo tanti rischi, corro dalla mattina alla sera per cercare che vengano evitati da tutti. Mentre l’ottimista tende a dipendere dal fato e non fa nulla. Ho poca stima dell’ottimista. Poi sono gioioso e lo contrappongo a felice. La persona felice è soddisfatta di ciò che capita a lui, mentre la gioia è anche una percezione di ciò che di positivo succede all’altro. Amando l’uomo ed essendomi occupato di quelli che io chiamo “rotti”, dei giovani più estremi, di delinquenti, non ho mai trovato “mostri”, ho sempre trovato l’uomo».

Esiste la cattiveria?

«Sì, certo. Esiste in una società di idioti. Perché la cattiveria significa fare del male all’altro, e una delle modalità per sentirsi vivo può essere commettere il male. Ma dobbiamo ricordarci che il cattivo potrebbe essere buono o non cattivo perché il peso degli altri su ciascuno di noi, è molto forte».


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