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Carlo Lucarelli

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Io e Carlo Lucarelli siamo in un piccolo ristorante di Bologna in via de’ Falegnami. A margine di un’intervista per la Rai gli pongo alcune domande sulla sua opera e sul giallo.

Lucarelli, in fondo chi è il giallista?

«È una cosa che appartiene allo scrittore di gialli ma, in generale, al narratore: hai voglia di raccontare una storia e ti senti male se non la racconti. Io ho sempre questa idea qui: il narratore è quello che se arrivasse un gigante o una fata e gli dicesse: “Adesso vivi cento anni su un’isola deserta con tutte le persone a cui vuoi più bene e fai le cose più belle che puoi immaginare”, risponderebbe “grazie, va bene, ma facciamo novantanove, perché almeno l’ultimo anno vorrei tornare per raccontare quello che ho vissuto”. Non so perché ma penso ai delitti di Alleghe.»

Conosco benissimo questa storia, ci feci una serie per “Il Riformista” una decina d’anni fa. Sergio Saviane scrisse un libro molto bello e contestato.

«Se potessi, azzererei questa storia con la bacchetta magica per poterla scrivere io. La dinamica è fantastica: i Da Tos, l’albergo, il lago. Perfetta. Però, allo stesso tempo, se pure mi viene in mente un’idea così bella, alla fine non mi basta, non mi viene da scrivere, perché per scrivere devo avere un aggancio morale, politico, storico. Prima di scrivere “L’isola dell’angelo caduto” mi era venuta una bella idea di giallo: un tizio cade da una rupe in un’isola di confino durante il periodo fascista e la marea lo inghiotte. Però non l’ho scritta fin quando non mi è venuto in mente di raccontarla durante “il discorso delle piena responsabilità” del 3 gennaio del 1925, quando Mussolini assume su di sé la piena responsabilità del delitto Matteotti.»

Le sue storie sono molto italiane, e raccontano sempre questo lato oscuro dell’antropologia politica italiana.

«Sicuramente, e forse è anche uno dei miei limiti. Sì, le storie che scrivo sono molto italiane e hanno a che fare con la storia italiana, e con la radice fascista, perché è la più importante per capire anche il presente. Quando nel 1990 pubblicai per Sellerio il mio primo romanzo, “Carta Bianca”, tra le medaglie di cui vado fiero c’è un’opzione cinematografica di Costa-Gavras, che disse “fermi tutti, questo libro ci potrebbe interessare”, ma era il periodo in cui fece “Music box”. Non voglio paragonare le due storie, per carità, però sicuramente uno dei motivi per cui il mio libro non divenne un suo film è perché parlava di una storia molto italiana: la Repubblica di Salò, il fascismo di secondo tipo, ecc.»

Lei è uno scrittore molto tradotto, ma non ha mai avuto il successo che hanno gli scrittori di crimine puro, i metafisici del delitto, i feticisti del male, gli estremisti del sangue. Lei è sempre rimasto uno scrittore civile italiano, al fondo. E questa è, in definitiva, la sua coerenza morale.

«Sì, molti scrittori sono come li ha descritti lei. Per esempio Jeffery Deaver. Io no; io ho sempre a che fare con roba molto italiana. Anche “L’ottava vibrazione” ha a che fare con un tipo di colonialismo che è molto difficile da raccontare, perché non è il classico colonialismo. Infatti sono stato tradotto molto in Francia perché hanno storie quasi simili, e le capiscono abbastanza.»

E in America?

«In America sono stato tradotto, però non tantissimo. Il mondo anglosassone è molto difficile. Una volta andai in Inghilterra per partecipare a un grande festival del giallo. Erano tutti inglesi o americani, e poi c’erano alcune strane serate dedicate a strani soggetti tra i quali c’ero io, un finlandese un giallista di non ricordo quale altro Paese. L’atteggiamento degli anglosassoni era questo: i giallisti veri siamo noi, e poi ci sono questi qui che fanno robe esotiche. Certo, ci sono anche le eccezioni: Donato Carrisi è lettissimo in America, così come Sandrone Dazieri. Noi invece siamo come il cinema d’essai, come il cinema di nicchia.»

Lei è un narratore che usa poco la parola “io”, quando scrive. Eppure qualcosa della sua vita entrerà, nelle sue storie.

«Coliandro non sono io. Grazia Negro è totalmente diversa da me, proprio come genere di esperienze. De Luca non sarei io. Però in tutti i miei personaggi ci metto qualche cosa di mio. Quando ho scritto “Il sogno di volare”, che ha come protagonista un serial killer che uccide per rabbia, io l’ho scritto perché provavo una rabbia tale…»

Rabbia per cosa?

«Rabbia per tutto, per tutto il mondo. Andavo in macchina e pensavo: adesso vado là e, se mi dice così, gli do un cazzotto. Sa quando senti proprio che ti brucia?»

E quindi scrive anche quando le preme una “questione privata”?

«Un insieme di tre cose: una roba che sento, un dato sociopolitico, ovvero raccontare un certo modo di essere italiani, e una bella idea che mi è venuta per raccontare una storia.»

Però la tentazione di scrivere un libro scopertamente autobiografico non l’ha ancora avuta, mi pare.

«L’unica volta che ho scritto una cosa più autobiografica è stato quando ho scritto “PPP”. Mi avevano chiesto di scrivere un libro su Pasolini e io avevo pensato: è impossibile scrivere una roba definitiva su Pasolini. Quando me l’hanno chiesto, all’inizio doveva essere un libro sulla morte di Pasolini, ma io dissi no. Allora mi hanno detto: scrivi un libro su te e Pasolini come autore. Accidenti, non è che sia proprio un pasoliniano, però ho cominciato a scrivere ugualmente, e con la scusa di parlare di Pasolini ho iniziato a parlare di tante cose, di me, di quegli anni.»

È soddisfatto di quel libro?

«Sì, soprattutto dal punto di vista della narrazione, di me, perché ci ho tirato dentro un sacco di roba personale.»

Ricordo una soffitta, tanti ritagli di giornale.

«Il delitto Pasolini l’ho solo appena accennato. In realtà sarei dovuto essere più esplicito nel dire: non voglio parlare di questo, semmai vorrei parlare di come è stato preso il caso Pasolini da chi dice che esiste un caso o a da chi sostiene che non esiste un caso.»

Insomma, un giallista è un giallista sempre. Forse, anche nella vita quotidiana.

«Chi siamo noi giallisti, e cosa facciamo? Una volta si diceva: “Siete quelli che ammazzano la gente”. Un giallo cos’è? Un racconto in cui uno muore morto ammazzato e un investigatore scopre chi è stato, ma non è mai stato proprio così. Alla fine l’ho capito con le mie bambine, cos’è un giallista, perché quando erano piccole gli raccontavo le storie prima di dormire. Mi mettevo nel lettone, una qui e una qui, tipo ali, tre anni a testa, perché sono gemelle, e loro mi chiedevano una storia. Va bene, vi racconto una storia. Non è che raccontavo le mie storie. Raccontavo storie tipo: c’è un gattino contro un cagnolino, fanno la pappa e fanno la nanna. Però, e qui è il giallista, io raccontavo: “C’è un gattino, entra in una casa, poi, all’improvviso, spunta un cagnolino…”. Dopo un po’ dicevano: “Basta babbo, fai paura con quella voce”. Allora alla fine noi non siamo quello che raccontiamo, ma come lo raccontiamo. Il giallista è quello che racconta la storia in questo modo.»

Sono tanti anni che vorrei chiederle questo: Carlo Lucarelli, lei crede nella giustizia italiana?

«Io vedo un sacco di crime in televisione insieme a mia moglie, che è eritrea di nazionalità americana. Tante volte mi ritrovo a confrontarmi con lei. “Ma come, non l’hanno messo in galera?” “No, è solo il primo grado”. “Hanno mollato tutto, l’hanno rimesso fuori”. “Ma come?” Due sistemi completamente diversi, quello americano e quello italiano. Alla fine però io preferisco tre gradi di giudizio piuttosto che uno finisca sulla sedia elettrica da innocente.»


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