Saverio Strati (Sant'Agata del Bianco, 16 agosto 1924 – Scandicci, 9 aprile 2014)
9 minuti per la letturaNel centenario della nascita e a dieci anni dalla morte, Luigi Tassoni ricorda il grande scrittore calabrese Saverio Strati e la sua opera che l’editore Rubbettino sta ripubblicando nella sua interezza, e che la Regione Calabria si appresta a far conoscere con una serie di manifestazioni distribuite nell’arco di tutto l’anno.
LA MIA prima immagine di Saverio Strati è una fotografia scattata non so più da chi nella campagna sopra la sua casa natale a Sant’Agata Del Bianco, sull’Aspromonte. Risale a un periodo di poco posteriore alle nostre splendide passeggiate fiorentine, e alle chiacchierate da Piero Pananti, nella sua Galleria in Piazza Santa Croce, a partire dal 1977. È questo il paesaggio dominante e misterioso, anche per il nostro sguardo, che molti adolescenti e ragazzi dei romanzi e dei racconti di Strati attraversano per guadagnarsi da vivere, come muratori, contadini, pastori, carbonai. Questo è il teatro primo di un apprendistato alla vita, ai malesseri e alle seduzioni del mondo, un teatro di insidie, affetti, maledizioni ed eros, piccolo e concentrato anche quando l’ambientazione è in grandi città o nei luoghi dell’emigrazione.
Perché piccolo e concentrato? Perché Saverio Strati orienta il focus narrativo sulle relazioni tra i personaggi, e le mette alla prova in una cerchia ristretta di concrete esperienze, di disincantate ipotesi di sopravvivenza, proiettate costruttivamente nei sogni e nei progetti per l’avvenire. Per questo motivo il bambino protagonista di Tibi e Tàscia (1959), quando frequenta la casa del figlio del giudice e partecipa a letture e conversazioni che stimolano la sua intelligenza, dice alla mamma che lo osserva incredula, trasecolata: «Quant’è grande il mondo e quante cose difficili ci sono». Il mondo improvvisamente è pensato ben al di là delle giornate essenziali, dell’acqua portata in casa dalla fonte, del pane difficile, degli obblighi dettati dagli adulti, dei giochi strappati alle necessità quotidiane, e di quell’inesorabile corpo a corpo con la vita, che è una costante della scrittura di Strati. L’altra protagonista del romanzo, Tàscia, ovvero Teresa, ne sperimenta la resistenza mediante la lotta fisica con i bambini maschi, le delusioni senza conforto, la rinuncia alla propria intelligenza, la mortificazione dell’infanzia, e persino quando sfida il padre che, perché donna, vorrebbe impedirle d’essere come i suoi compagni. Andare a scuola, leggere, imparare, sognare, sono un lusso, e questo lusso toccherà in sorte al suo caro Tiberio, detto appunto Tibi, una rivincita alla ruota della fortuna, mentre lei rimarrà amaramente al di qua del cerchio chiuso fra necessità primarie.
Il tono della favola cruda di Tibi e Tàscia è del tutto opposto a quello del precedente romanzo di Saverio Strati, La teda (1957), titolo emblematico (la teda o deda è la scheggia di pino adoperata per accendere il fuoco o dar luce), narrato in un drammatico tempo sospeso, ma anche qui la prospettiva si restringe entro un borgo sperduto, dal nome di fantasia, Terrarossa, tormentato dalla criminalità, dalla mentalità mafiosa o connivente per paura, trascurato e fuori dal mondo, relegato in una delle isole aspromontane che spesso incontreremo nei racconti di Saverio Strati, così come avviene in quelli di Alvaro, di Seminara, di La Cava. C’è in più nella scelta di Strati la scoperta dell’habitus mafioso, delle violenze e delle prepotenze quotidiane, e il rifiuto di quella legge sopra tutte le leggi, di fatto opposta alla effettiva legalità lontana e pericolosamente assente: ecco, dunque, l’immagine del tempo fuori dalla storia. In una battuta lo spiegano in apertura i mastri, paragonando livelli differenti di civiltà fra borgo e borgo: «Non è che la gente sia diversa dalla nostra o da noi stessi, ma è il paese che è diverso. Non c’è la strada rotabile, manca la farmacia, il medico non c’è mai. È l’ambiente che è disgraziato. E tutto dipende dall’ambiente». Eccola tutta qui, in una frase, la questione non più solo meridionale, ma europea, mediterranea, di occidente e di oriente, una questione ancora oggi aperta.
La teda parla con un sapore da classico russo, con orecchie vigili a quei Gogol’ e Tolstoj dallo scrittore molto amati, come lo sono i tragici greci. Qui la narrazione è stretta all’essenziale, non si sprecano sangue e urla, non c’è spazio per le malinconie, la parola è diretta a un’economia di discorso, scava al di sotto delle superfici e delle apparenze, ha un passo linguisticamente cauto, puntella un’avventura in fieri, nel bene e nel male. Le donne sono silenziose o serve, e spesso sono figure animate dalle fantasie erotiche dell’adolescente narratore, dalle sue ansie ormonali che si mescolano ai discorsi degli adulti, alternativa alla prepotenza dei seduttori per diritto, i cosiddetti “uomini d’onore” disposti a tutto, e in realtà succubi di quella miscela di incoscienza arcaica e istintività bestiale. L’amore selvaggio, l’affermazione del sé e del maschile, il tormento delle donne, soffocate nel loro ruolo, insidiate, con poco fiato, con poca voce e, se madri, potenti organi di maledizione, dicono di un’altra pericolosa separazione, di un’altra isola nell’isola aspromontana, che è quella della congiura fra i sessi. Fino al punto in cui sia in modo cauto che deflagrante il femminile, anche nei romanzi di Strati, si prende la rivincita storica, per di più mantenendo saldi i legami familiari, come vediamo in quell’autentico capolavoro che è Il diavolaro (1979).
Qui il protagonista è un despota distruttore di destini (di fatto mandante di un omicidio e colluso con i mafiosi locali), un diavolaro che, però, in sorprendente osmosi con i giovani della sua stessa famiglia e come per legge di contrappasso, è trascinato fuori dal cerchio famelico e protettivo del suo strapotere ambiguo nel paese d’origine, ed è costretto a condividere un tipo di vita davvero diversa nel nord Italia, e ad ammettere, in modo definitivo, la forza della presenza femminile e il suo inesauribile dono di discrezione, passione, coraggio e coerenza. Qui, come in un altro bellissimo affresco dal titolo a dir poco magico, La conca degli aranci (1986), il racconto familiare si arricchisce di sfide e crudeltà, anche inconfessabili, all’interno di una movimentata scena narrativa, nella quale un figlio s’oppone duramente al padre, e lotta contro la madre acquisita. E sempre più decisamente la pagina di Strati smette di diffidare del dialetto, ne recupera una certa naturalezza, una peculiarità di riferimento a oggetti e azioni, pur mantenendo un linguaggio sorvegliato, asciutto, dai periodi brevi, e l’uso formidabile della narrazione in terza persona con dialoghi raccontati in discorso diretto. Va ascritto, fra l’altro, al femminile il capitolo della maledizione delle madri. «Non dimenticarti di tua madre» è in Mani vuote (1960) l’ammonimento del vecchio Evangelista: la madre è una di quelle che maledicono i figli, come ci racconta anche l’ultima storia di La Marchesina (1956), intitolata appunto Il pastore maledetto. La maledizione delle madri respinge, allontana con forza dal luogo originario, e cade illogica e imperdonabilmente sulla testa dei figli, come castigo e come alibi per il futuro. La maledizione delle madri è solo una piccola parte di quella enigmatica e atavica maledizione che sta nelle cose, avvertimento drammatico per le orecchie del protagonista di Mani vuote: «Una sola cosa è vera […], ed è questo nostro dolore di noi tutti, questa nostra scontentezza di ogni cosa, nel bene e nel male, nella ricchezza e nella povertà. Sarà una terribile maledizione che tutti ci portiamo sulle spalle».
Che è almeno un dolore unico e uguale per tutti, ma anche un nodo che potrebbe essere sciolto ed esorcizzato scavando fino alla radice della sua inspiegabilità, grazie a quel desiderio e a quell’esperienza, che seducono molti dei personaggi di Strati e che coinvolsero lo scrittore per tutta la vita: parlo, naturalmente della lettura, della conoscenza, del viaggio attraverso le parole, e del decisivo sconfinamento in una narrazione intesa come azione, scelta, vocazione. Al lettore dei racconti di Saverio Strati, al lettore recente o neofita di queste storie, ora nuovamente in libreria, viene offerta la chance di muoversi lungo tutto l’arco del Novecento, fra generazioni diverse e disposte a un confronto che viene interpretato come legame, sfida, lotta affettuosa o drammatica, fisica e mentale, netto faccia a faccia tra padri e figli, tra madri e figli, tra uomo e donna, tra figure che scelgono il lavoro onesto e figure che si dànno e si dannano alla e nella illegalità. «Mio padre parlava e lavorava. Lavorava come un treno in corsa. Era sempre in moto, anche mentre mangiava il suo pezzo di pane con olive o fichi secchi o frutta».
Questo è il memorabile incipit di Il selvaggio di Santa Venere (1977), il romanzo che contraddice tanti pregiudizi riguardanti il nostro Sud e i Sud del mondo, e in un attivissimo dinamismo intreccia la storia di tre generazioni, nell’arco del XX secolo. Nonno, padre e figlio s’alternano raccontandosi, e anche affettuosamente lottando corpo a corpo, in un gioco o in uno scontro, entrambi necessari per le piccole e grandi conquiste di libertà elementari ed etiche. Segno, dunque, che la libertà, come l’affermazione della propria dignità personale, non è affar da poco, e anzi passa attraverso maglie severe. Che tutto nasca in un racconto, o dal racconto breve, è di fatto ciò che avviene anche nel caso di Saverio Strati, come accade per altri scrittori ricordati in centenari recenti (Fenoglio, Sciascia e Calvino in particolare). Nella storia di La Marchesina (che dà il titolo al libro di 12 racconti, poco più di 35 pagine), le prime battute sono già una promessa: «Camminammo per circa quattr’ore, sempre per cocuzzoli nudi e salite ripide e discese, saltammo come capre burroni e fratte, mentre il sole ci colpiva imperdonabilmente in faccia». Imperdonabilmente: l’insolito avverbio racchiude in sé qualcosa di non ancora manifesto, che sta sotto alle colpe e ai destini riscattati. Il muratore dodicenne, lo spaccapietre, il vecchio traffichino, le silenziose adolescenti, e le donne usurpate e usurate, sembrerebbero in superficie l’obbiettivo della tensione narrativa, e invece la storia dice altro, ci porta altrove. Punta qui come in altri casi sulle fantasie e sulle fughe dei giovani protagonisti dei romanzi di Strati, almeno fino agli anni Settanta, e da qui, nei romanzi successivi, passa a focalizzare figure che invertono la tendenza, studiano, si affermano, mettono in minoranza i vecchi statici e testardi, gli ambigui manipolatori vissuti fra crimine e lavoro. Ne è sinopia e mosaico esemplare il romanzo postumo, del 2021, Tutta una vita, che si chiude con un auspicio energico e magico: «e altro farai ancora, altro… altro ancora, nonostante la vecchiaia».
È come se la freccia dei racconti di Saverio Strati procedesse verso l’alto e da lì lo scrittore si sporgesse a guardare l’abisso di un mondo difficile, fatto di durezze e di necessità primarie, esorcizzate con la narrazione. Un abisso progressivamente allontanato da sé, come fa l’architetto protagonista delle pagine postume. Sin dalla sua origine, e per oltre mezzo secolo, la pagina di Strati mantiene la semplicità di un linguaggio delle cose, senza perversioni espressive, senza ambiguità né imbellettamenti. Lo dice benissimo Giuseppe Aloe nell’introduzione alla riedizione Rubbettino di Mani vuote: la semplicità, «oggi ritenuta un minus, è il vero sublime […]. La nettezza, la frase pulita, la chiarezza delle intenzioni, la mancanza di doppi specchi, di doppi giochi, di giochi di parole, fanno della prosa di Strati una delle più chiare del nostro Novecento». Una delle più chiare, è vero, e persino una delle più disciplinate ed eticamente orientate.
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