Guido Gozzano (foto da poesiesullalbero.blogspot.com)
7 minuti per la letturaGuido Gozzano, le perle del meno poeta dei più poeti
Il sostantivo latino poeta (identico al nostro) ha origine dal verbo greco poiéo (che significa creare). Fin dall’antichità designa l’autore di opere di poesia, ma anche l’inventore, l’artista in generale. Nell’accezione più tecnica, la poesia è quel genere letterario dalla forma chiusa, regolato metricamente, che fa uso di un linguaggio ricercato. A differenza della prosa, è basata su norme ritmiche che le conferiscono una spiccata musicalità. Sue prerogative sono la ricchezza del pensiero, l’intensità del sentire, il potere di suscitare nuove immagini: suggestività e forza evocativa, al punto che la figura del poeta viene in origine associata allo straordinario e al divino. Simile a un veggente, che gode di una particolare relazione con le divinità ispiratrici, in virtù di una funzione che non è quella di creare o conoscere per proprio conto, ma piuttosto quella di ricordare una verità sacra. Il poeta percepisce e interpreta la realtà in modo differente.
C’è stato un momento a partire dal quale la poesia è stata superata – in termini di apprezzamento e diffusione – da altri generi letterari. Addirittura accusata di eccentricità, se non di aperta inutilità. Un momento a partire dal quale il poeta ha perso la sua aura mistica e ha visto il suo ruolo ridimensionato da forme di razionalismo.
La poesia è nata ben prima della scrittura. Ha resistito al tempo, liberandosi degli schemi obbligati, per diventare forma pura di espressione. Il poeta è rimasto il solo capace di immergersi a certe profondità: uno straordinario scandagliatore di fondali marini, o come diceva Hannah Arendt, “un pescatore di perle”.
Guido Gozzano nella storia della nostra poesia è l’ultimo poeta in senso classico e il primo in senso moderno: il meno poeta dei più poeti. Ha modellato una materia già esistente in modo del tutto personale: è partito dalla poesia di Petrarca, ha attraversato e superato quella di D’Annunzio, per approdare in un territorio solo suo. Si è distaccato dall’estetismo, rendendo il suo stile sempre meno lirico e sempre più prosaico. Le strutture della poesia sono quelle tradizionali; la musicalità, il ritmo, la capacità evocativa e le suggestioni anche. Cambiano linguaggio e temi. Il verso di Gozzano è narrativo. E in modo aulico si trattano argomenti davvero poco sublimi: molto più quotidiani, per non dire insignificanti. Sono “le buone cose di pessimo gusto”. E la chiave di lettura utilizzata per spalancare loro le porte solenni della poesia, è piuttosto inusuale per un genere così raffinato: la cifra di Gozzano è l’ironia. La stessa necessaria ad affrontare una certa malinconia esistenziale, che resta al fondo sempre incombente, ma che pure non riesce mai definitivamente a prevalere.
Guido Gozzano nasce a Torino nel 1883, in una famiglia borghese benestante. Si iscrive alla facoltà di giurisprudenza, eppure preferisce frequentare i corsi di letteratura. È bazzicando certi ambienti che nel 1906 conosce la poetessa Amalia Guglielminetti. Avranno una relazione lunga circa due anni e un rapporto epistolare molto più duraturo. Nel 1907, mentre si sta godendo il successo per la sua prima pubblicazione (La via del rifugio, una raccolta di 30 poesie tra cui compare L’amica di nonna Speranza), gli viene diagnosticata una lesione all’apice di un polmone, una forma di tubercolosi. Cominciano così una serie di viaggi, vicini e lontani, verso climi più miti, nella vana speranza di ottenere una soluzione al male. Abbandonati poi del tutto gli studi giuridici, Gozzano si dedica unicamente alla poesia. È del 1911 il suo libro più importante: I colloqui (comprende 24 componimenti tra cui Invernale, La signorina Felicita ovvero la Felicità e Totò Merùmeni). Nel 1912 la malattia si aggrava e il poeta decide di partire per l’India. Invierà in patria diverse lettere, resoconti a volte distaccati e ironici, altre intimi e sofferti. Verranno riunite in un volume postumo – Verso la cuna del mondo – del 1917. Rientrato in Italia nel 1913, Gozzano morirà tre anni dopo, ad appena 32 anni. Una vita breve e infelice, verrebbe da dire. Ma no, infelice no!
C’è in Gozzano la perenne nostalgia di un mondo, di un tempo che non torneranno. I gingilli inutili e un po’ pacchiani che adornano il salotto di nonna Speranza, antiche eleganze divenute goffaggini, sono le impronte di un’epoca tramontata in cui tutto era ancora possibile. Oggetti fuori moda, così poco classicamente poetici, così tanto originalmente e impareggiabilmente pieni di grazia.
C’è in Gozzano la consapevolezza di vivere in un’epoca in cui il poeta ha perso definitivamente il suo ruolo di guida, in cui la poesia è diventata qualcosa di trascurabile e impolverato. Non certamente la sua. Così rozza e così raffinata: come la signorina Felicita, brutta e pure ignorante, che non ha nulla di certe fanciulle angelicate che ispiravano un tempo i versi più famosi. La verità è che Gozzano demistifica l’essere poeta: qualcuno che sente troppo e vive troppo poco. – Gozzano che poeta non vorrebbe essere, eppure è. – Ed è da questa contraddizione che nascono le sue poesie più belle: “Il mio sogno è nutrito d’abbandono, / di rimpianto. Non amo che le rose / che non colsi. Che le cose / che potevano essere e non sono / state…”, scrive in Cocotte. C’è in Guido Gozzano la costante presenza della morte, “la Signora vestita di nulla che non ha forma”, che “protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma”, “l’Eguagliatrice” che “numera le fosse”, colei che rende vano ogni vissuto. Se da una parte il poeta vorrebbe “vivere di vita”, dall’altra l’incombere dalla fine rende illusoria ogni passione. Qual è il senso di tutto se poi alla fine nulla rimane?
Bisogna leggere Totò Merùmeni. C’è una villa triste al ricordo di certi “banchetti illustri nella sala da pranzo immensa”. Ci sono “una madre inferma, una prozia canuta ed uno zio demente”. E c’è Totò, 25 anni, scontroso, a cui piace scrivere, giovane uomo dalla “spaventosa chiaroveggenza”, che ha scelto di non barattar parole ma di comporre in libertà. La vita con lui non ha mantenuto le promesse: la delusione amorosa, la malattia, un costante e mai pago senso di malinconia. Come dalle rovine di un edificio andato a fuoco sputano i giaggioli dai bei fiori vividi, così da un’anima riarsa vengono fuori a poco a poco versi consolatori. Totò, il poeta, è felice. Crollati i sogni di una vita eccezionale, non gli resta che accettare il proprio destino. Una consolazione c’è: se la voce di un poeta ha durata breve, al contrario la poesia è eterna.
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