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Lady Diana Spencer (1961-1997)

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EBBE la capacità di far sentire le donne, specialmente dell’Occidente, compartecipi del suo triste destino. Di ispirare loro uno spirito di sorellanza. Di catalizzare sulle sue vicende umane una condolenza generale, perché in ognuna (o quasi) echeggiava la cicatrice – per qualcuna, una ferita ancora aperta – di un partner fedifrago. Diana Spencer, Principessa del Galles, con le vicissitudini di un matrimonio mal assortito e mal finito, a cui l’incidente nel tunnel dell’Alma mise un tragico suggello, è divenuta un’eroina da dramma. Torna costantemente al centro dell’attenzione – oggi più che mai, per la ricorrenza del 25 anni dalla sua morte – per un verso o per l’altro, in particolare allorché il suo secondogenito Harry veste i panni dell’enfant gaté e si mette di punta a calpestare le tradizioni familiari, infischiandosene della sensibilità dell’anziana e augusta Nonna. Incarna quella pecora nera immancabile in tante famiglie, ancora di più in quelle sotto le luci dei riflettori, in quanto personalità pubbliche, e ci mette del suo anche una moglie che, agli occhi dell’opinione pubblica, appare come un’arpia inadeguata.

Ogni generazione dei Windsor si è ritrovato a fare i conti con episodi di questo tipo e si sprecano i confronti con Wallis Simpson, che, però, ai tempi, passata l’ebbrezza nazista in cui coinvolse anche il suo “David”, rientrò nei ranghi di una turbinosa vita mondana, senza eclatanti interviste a pagamento. Stiamo parlando del figlio e non della madre, ma tante cose si spiegano grazie al vincolo di un cordone ombelicale mai reciso, neanche quando la figura genitoriale giace seppellita ormai da un quarto di secolo.

Fu sepolta sotto l’onda di un’emozione generalizzata, nell’Assunzione in Cielo della fin troppo umana Diana Spencer, ex Windsor, un fenomeno sociale non scevro dal sorgere di venature complottistiche, alimentate dal ricco mancato suocero Mohammed al-Fayed, animato dalla delusione di veder sfumate le sue mire di entrata nel mondo occidentale dal portone d’onore, in virtù di questo matrimonio. L’emozione provata al momento della morte così improvvisa e inopinata di una donna, ammirata e criticata in parti eguali dall’opinione pubblica internazionale, non si è mai spenta.

Oltre al mio epicedio (che tale non è) postumo, a un quarto di secolo di distanza, ancor più per la ricorrenza di una cifra “tonda” dell’anniversario, i media tracimeranno di articoli e servizi video più o meno ispirati (non pretendo che il mio lo sia, però siate certi che sto scrivendo esattamente ciò che penso), alla ricerca di un identikit verosimile di chi fosse per davvero Diana Spencer. I più attendibili dovrebbero venire dal mondo anglosassone, perché è quello di estrazione della Principessa del Popolo. A bocce ferme, trascorsi venticinque anni, probabilmente la narrazione si sarà spogliata di parte della retorica lacrimevole che Diana, in vita, aveva alimentato, su quel matrimonio nato sotto la cattiva stella. Le prefiche di allora si saranno convinte che Charles Windsor, che pare, per temperamento, più l’erede di un signorotto di campagna che un predestinato alla Corona, era stato anche lui vittima di un meccanismo “infernale” innescato dalla Ragion di Stato? E durante la sua lunga vita, la matriarca di famiglia si sarà mai fatta un esame di coscienza, riconoscendo fra sé e sé, e davanti a quel Dio col quale dovrebbe avere il citofono diretto, in quanto Capo della Chiesa d’Inghilterra, di aver sbagliato a imporre a quel figlio serioso e rurale una sposa così diversa e fuori contesto rispetto a lui?

Pare che nelle Università d’eccellenza frequentate da Carlo abbiano saltato l’insegnamento delle lettere di Sallustio in cui si asserisce che “Faber est suae quisquae fortunae” (Ciascuno è artefice del proprio destino). Eppure, anche in questa occasione, ciò è vero. La ragazzina Diana, probabilmente, era una giovanissima “preda” che lusingava l’istinto da cacciatore (sia pure ambientalista) del più maturo principe ereditario. Diana aveva passato persino il trucido e poco dignitoso esame della sua illibatezza che, in quegli anni, non veniva più preteso neppure nella società più sociologicamente arretrata del nostro Occidente (indovinate il territorio che mi viene in mente). Lo subirono forse la sorella di lui, Anna o le cognate Sarah e Sophie? Probabilmente lui, dentro di sé, si era persino rassegnato al fatto che Camilla Shand, in Parker-Bowles era una partita perduta, in quanto era divorziata (e non lo era la sunnominata Anna, all’epoca seconda nella linea successoria? Misteri della Corte di San Giacomo!) e aveva tutte le intenzioni di far ragionevolmente funzionare il matrimonio.

Quanto a lei, la delicata, sognatrice Diana probabilmente aveva in sé ancora gli echi delle fiabe col Principe Azzurro trasudante melassa. Paio deragliare, parlando di fatti avvenuti sedici anni prima rispetto al tragico epilogo, ma lo scarto temporale è solo apparente. Persino l’incidente allunga un suo fil rouge, un segnale forte e chiaro del destino, in tutto ciò che avvenne così tanti anni prima. Dico questo perché, nel 1997, quel fatidico giorno, anch’io fui coinvolta nel pathos generale, in particolare femminile, in una strana modalità di vivere la sorellanza, che suscitò la morte di Diana Spencer. Confesso, lo vissi sulla mia pelle, anche alla luce delle vicende sentimentali fin lì accadutemi. Venticinque anni dopo, con un po’ di ironia, rifacendomi al motto latino che, io sì, avevo studiato al Liceo Classico “Vico” di Nocera Inferiore, mi auto-ammonisco sulla mia coazione a ripetere i miei errori di giudizio rispetto agli uomini, una “dote” che mi pare avesse anche Lady D..

Son riuscita a evitare di ripercorrere l’usurato copione della ricostruzione di quei terribili momenti del 31 agosto 1997 che, in loop, viene replicato ogni anno. Se proprio devo dirla tutta e correre il rischio di apparire cinica e dissacratoria, uscendo fuori dal coro dei laudatores, penso che a Diana quella morte così “eclatante” e “notiziabile” abbia fatto un gran servizio. Le ha impedito di essere circoscritta al semplice recinto dei giornali scandalistici, con l’ ”amico di turno”, come una Illary Blasi qualsiasi. Sembro Vittorio Feltri, vero? Le femministe o pretese tali mi massacreranno? Ma rifletteteci su (e qui prendo a prestito un tormentone di Luca Zaia). Se lei fosse stata forte, matura e cultrice dei diritti delle donne non avrebbe spettacolarizzato la fine di un matrimonio fra due persone così agli antipodi fra loro. Avrebbe, come usano i giapponesi, tirato una riga e detto “Next”, ricominciamo daccapo. Tanto, non restava in stracci ad elemosinare pane e companatico davanti alla cattedrale di Westminster. Non aveva più vent’anni ma neanche 60, mentre quel tourbillon di “consolatori in carica” veniva scelto oculatamente, come un percorso minato per colpire la Famiglia Reale e l’ormai ex marito.

Anche qui entra in campo la coazione a ripetere freudiana, che serviva ad alimentare la sua bulimia psicologica, dopo che aveva sofferto di bulimia alimentare, sempre per richiamare su di sé, in costanza di matrimonio, un marito distratto e disinteressato, con cui, alla fine, aveva in comune solo due figli, mentre all’inizio neanche un argomento di conversazione “vero”.


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