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Antonio Gramsci in una illustrazione

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Il 21 di questo mese celebriamo i cento anni dalla fondazione del Partito Comunista d’Italia e, curiosamente, i 130 anni dalla nascita di Antonio Gramsci, uno dei suoi fondatori, avvenuta il giorno 22 gennaio del 1891, ad Ales, piccolo villaggio della Sardegna. È dunque un’occasione – mentre ferveranno i convegni e le discussioni sulla storia di quel Partito – per tornare a ricordare la figura di colui che contribuì forse più di tutti, insieme a Togliatti, a creare un grande organismo politico, aderente alla storia italiana, diverso rispetto al modello bolscevico di impronta sovietica.

La prima fase della vita di Antonio somiglia perfettamente a quella di due o tre generazioni di giovani meridionali. Anche a quella di chi scrive. Quella di giovani che aspirano a una formazione superiore e devono lasciare la famiglia, affrontando gli studi universitari in città del Centro-Nord.

Nato in una famiglia impoverita da varie vicissitudini, il giovane, finiti gli studi liceali, vince una borsa di studio che gli consente di iscriversi alla facoltà di Lettere dell’Università di Torino. E sono anni durissimi, soprattutto i primi, in cui deve combattere contro il freddo dell’inverno torinese, i pochi soldi e la cattiva salute che lo tormenta e gli impedisce di studiare, costringendolo spesso a saltare le sessioni di esame. Torna a ricordarlo Angelo D’Orsi in Gramsci. Una nuova biografia, Feltrinelli 2018, citando alcune delle lettere inviate da Antonio ai familiari. Ma l’Università fa progressivamente emergere il talento del giovane, che segue le lezioni di illustri docenti come Luigi Einaudi, Achille Loria, Francesco Ruffini e tanti altri , mostrandosi particolarmente versato nello studio della linguistica. Ciò che tuttavia cambia il corso dei suoi studi e della sua vita è la città di Torino, divenuta ormai il più importante centro industriale d’Italia, e luogo di fermenti politici e sociali che, in quegli anni, diventano sempre più intensi.

Gramsci già prima della Guerra Mondiale si avvicina al Partito Socialista e comincia a collaborare a Il grido del popolo e poi al foglio torinese dell’Avanti! Ma è alla fine della guerra e soprattutto nel 1919-20, durante il cosiddetto Biennio Rosso, che egli diventa un protagonista della vita politica torinese e italiana. Sono questi gli anni in cui Torino diventa teatro di violenti conflitti di classe, che culminano nell’occupazione delle fabbriche da parte degli operai, secondo modelli di lotta sperimentati in Russia. In quel paese, nel 1917, mentre era in corso la guerra, i movimenti rivoluzionari capeggiati da Lenin e dai suoi compagni avevano infatti abbattuto il potere zarista e fondato il primo stato proletario della storia. Per tutti i militanti rivoluzionari dell’epoca quell’evento grandioso e drammatico, in uno dei momenti più cupi e sanguinosi della storia d’Europa, rappresenta un esempio da imitare a cui legarsi. Quell’evento, com’è noto, darà una impronta decisiva a gran parte del secolo XX. Esso porterà alla nascita di una schiera di partiti comunisti a scala mondiale, costituendo un fronte oppositivo organizzato, quello del movimento operaio, contro gli stati capitalistici. In tale processo si inscrive la nascita del PCd’I a Livorno, nel 1921.

Ma qual è il ruolo originale che Gramsci gioca in questa grandiosa partita, che ormai si svolge su uno scenario mondiale, che da Torino lo porta anche a Mosca, cuore del movimento rivoluzionario globale? Il giovane intellettuale sardo nel 1919 aveva fondato, insieme a Palmiro Togliatti e Umberto Terracini, il periodico L’Ordine Nuovo, diventato l’organo dei Consigli di Fabbrica, istituiti in alcuni stabilimenti, come la Fiat e la Lancia, a imitazione dei soviet russi. Quel periodico diventerà poi il quotidiano del partito comunista, sino al 1924. Anno in cui Gramsci fonda l’Unità. Pur muovendosi dentro la grande corrente del bolscevismo sovietico, il rivoluzionario sardo comincia a uscire dagli schemi di un’applicazione astratta dell’esperienza russa e intraprende una riflessione sui caratteri storici della società italiana e sulle sue peculiarità. Ben presto egli comprende che la trasformazione rivoluzionaria del nostro Paese non sarà possibile senza coinvolgere le masse contadine e dunque senza conquistare il Mezzogiorno. Influenzato dalle idee del socialista Gaetano Salvemini egli perciò teorizza l’alleanza tra gli operai del Nord e i contadini del Sud, resa possibile solo da un partito che sappia farsi carico della questione meridionale.

Tuttavia, il contributo più profondo e duraturo di Gramsci, gli scritti che ne fanno uno dei più profondi pensatori politici dell’età contemporanea, ormai tradotto e studiato in tutto il mondo, sono​ le opere scritte in carcere, nel luogo che ha decretato la sua fine di uomo libero e lo ha escluso per sempre dalla lotta politica. Arrestato nel 1926 , nonostante fosse protetto dall’immunità parlamentare, egli farà dei luoghi del confino e del carcere in cui peregrinerà fino alla sua morte, avvenuta nel 1937, i laboratori di uno studio e di una ricerca instancabile che daranno vita ai Quaderni.

È nei Quaderni che l’intellettuale sardo mette in piedi un monumento di analisi e di pensiero che – sia pure, talora, in forma di appunti e di frammento – costituisce un contributo ancora oggi vitale per comprendere i meccanismi della società del nostro tempo, le dinamiche del potere, il comportamento delle masse, i fenomeni culturali, il mutare delle psicologie collettive. Quel che fornisce a Gramsci la ragione fondativa del suo progetto intellettuale è una situazione storica drammatica, di cui deve prendere atto. Il movimento rivoluzionario iniziato in Russia nel 1917 si è bloccato, in Italia è stato duramente sconfitto. In Europa e nel mondo avanza il fascismo. La sua prigionia nel carcere fascista ne costituisce la conferma più dolorosa. Perché, dunque, un grandioso movimento di popolo, che aveva scosso dalla fondamenta il vecchio ordine borghese, si è arrestato? Perché l’esperimento sovietico è rimasto isolato? Gramsci risponde a queste domande decisive con una constatazione di fondo. La rivoluzione d’Ottobre non è replicabile in Occidente, dove esiste una società stratificata e complessa, dove il potere si articola ed esprime in forme molteplici, economiche, politiche, religiose, culturali. In Russia il dominio zarista poggiava su una società informe, una “massa gelatinosa” e inarticolata, come egli la definiva, all’interno della quale il potere centrale non aveva radici profonde. Una volta abbattuta l’autocrazia degli zar, lo stato non esisteva più e il controllo politico poteva essere assunto da chi occupava le sue principali sedi istituzionali. In Europa assumere il controllo delle leve pubbliche non era sufficiente per garantire il governo rivoluzionario del proletariato sull’intera società. Perché nella società industriale i poteri della borghesia, le “casematte”, come le chiamava Gramsci, sono disseminate e molteplici e non tutte controllabili tramite i corpi statali. Non era sufficiente conquistare lo Stato per conquistare anche la società e trasformarla in senso socialista.

In Europa, dunque il compito era ben più complesso che nella Russia arretrata, dove l’immensa maggioranza della popolazione, fatta di contadini, era da poco uscita dalla servitù della gleba. Per trasformare la società capitalistica occorreva dunque un progetto molto più articolato di una semplice insurrezione di popolo, più o meno armata. Per conseguire quel fine si rendeva necessaria la conquista culturale di diversi strati popolari, resi persuasi dei vantaggi e della superiorità di un assetto socialista della società. Quel che appariva decisivo, se la classe operaia voleva realizzare la trasformazione rivoluzionaria dell’assetto borghese, era pertanto possedere una superiore capacità egemonica. Era qui la chiave di volta della rivoluzione in Occidente. E il concetto di egemonia, che significa potere e insieme persuasione, dominio e abilità di governo, comando e capacità di risolvere i problemi della masse, costituisce il culmine del pensiero rivoluzionario di Gramsci. Un concetto che dunque affida alla cultura e non alla lotta armata, il compito principale di agente rivoluzionario e consegna uno ruolo di prim’ordine agli intellettuali. Che per Gramsci non erano soltanto i filosofi e gli scrittori, ma anche gli avvocati, i medici, i professori di scuola, i maestri elementari. Tutti attori sociali in prima linea e produttori di ideologie.


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