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«QUANDO sono sul palco suono senza spartito, quando dirigo ho tutto in testa, come se avessi tutto scritto, i primi e secondi violini, violoncelli, bassi, flauti, oboi, clarinetti, fagotti, corni, trombe, tromboni, percussioni. Per me è dirigere con gli occhi, con i sorrisi, mando anche baci quando qualcuno ha fatto bene».
Ha attraverso la dodicesima stanza (a voler ricordare il titolo del suo primo album The 12th room, ndr) giocando a scacchi con la vita, senza mai rinunciare all’amore, quell’amore di purissimo cristallo che non si è scheggiato neanche quando il corpo è diventato una prigione. Ezio Bosso, pianista, compositore e direttore d’orchestra, già bassista degli Statuto, è stato musica, note, pensieri, parole, vertigine e volo. Ricordarlo ora è come entrare in un labirinto dove il filo di Arianna sono le sue parole.
«Si dice che la vita sia composta da 12 stanze. 12 stanze in cui lasceremo qualcosa di noi che ci ricorderanno. 12 le stanze che ricorderemo quando saremo arrivati all’ultima. Nessuno può ricordare la prima stanza dove è stato, ma pare che questo accada nell’ultima che raggiungeremo. […] Ho dovuto percorre stanze immaginarie, per necessità. […] “Stanza” è una parola importante nella vita degli uomini, ma spesso è data per scontata. Eppure nel linguaggio vuol dire tanto, vuol dire poesia, canzone, libertà, affermarsi. Vuol dire persino costruire».
In sua memoria è difficile scrivere. In fondo, si vorrebbe solo dare una carezza lieve al suo ricordo così palpitante, cancellare l’assenza dolorosa e al tempo stesso trovare parole luminose come lo era lui: esempio di uomo e di artista che è riuscito ad accendere stelle anche nelle sue notti più buie. C’ero anch’io quella sera davanti alla tv a guardare Sanremo 2016, quando Bosso espugnò l’Ariston e i cuori. Difficile dimenticare. Bosso scardinò l’ordine. Sparigliò le carte. Inchiodò il pubblico senza demagogia. Senza retorica. Mi apparve come una sorta di cavaliere d’altri tempi: la giacca nera con i revers lucidi a mo’ di smoking, i polsini della camicia bianca sbottonati e quella capacità di dire con disarmante semplicità — dopo aver ricordato Claudio Abbado — che perdersi è come «imparare a seguire. Perdere i pregiudizi, le paure, perdere il dolore». Poi via con “Following a bird” sui tasti d’avorio del pianoforte. Come a dire: seguendo il volo di un uccellino si può guardare il cielo anche nel bel mezzo di un uragano feroce come la malattia neurovegetativa che lo aveva trafitto ma non sconfitto. Ancorato com’era ai suoi compagni di viaggio Mozart, Bach, Beethoven, Cajkovskij, Verdi e non solo, Bosso era il capitano che tiene la rotta nel mare in tempesta.
Per il musicista — nato 48 anni fa a Torino da una famiglia di operai, padre tranviere e madre operaia alla Fiat — la musica era il tempo e lo spazio, il sogno irrinunciabile, l’albero che germoglia, il fiore che fiorisce, il mare che ti abbraccia, l’aurora che non ti fa paura, il giorno che viene e la notte che ti custodisce. Bosso non scansava la vita, né la propria né quella degli altri, perché «la musica è come la vita, si può fare in un solo modo: insieme». Musica, spazio, tempo, luce, silenzio, suono e futuro anche in quegli ultimi giorni resi ancora più sghembi dalla quarantena. «La prima cosa che farò è mettermi al sole. La seconda sarà abbracciare un albero», aveva detto a proposito della fine del lockdown in un’ultima intervista . «(…)Perché il domani quello col sole vero arriva/ E dovremo immaginarlo migliore/ Per costruirlo/ Perché domani non dovremo ricostruire/ Ma costruire e costruendo sognare/ Perché rinascere vuole dire costruire/ Insieme uno per uno/ E costruire è bellissimo/ Il gioco più bello/ Cominciamo…»
Costruire, cominciare insieme era una necessità per uno come Bosso che ci metteva la faccia, si “sporcava le mani”, diceva la sua. Come quando parlava dell’orchestra come forma di società ideale che ha nelle partiture la sua Costituzione «perché unisce tutti e unisce le singolarità, non le individualità» aveva detto a Diego Bianchi durante una puntata di “Propaganda Live”. E poi: «Nella mia orchestra tutti turnano […] Non smetterò mai di dirlo: non si suona meglio per distruggere il nostro vicino, si suona meglio perché lui suoni meglio, si è orgogliosi di chi suona meglio».
A guardare Ezio e la sua Europe philharmonic orchestra in quel gioiello che è il teatro Giuseppe Verdi di Busseto durante la trasmissione “Che Storia è la Musica”, hai la misura non solo del suo indiscusso talento, dello scavo rigoroso ma mai arido nelle partiture proposte, dell’abilità da narratore di costruire a sua volta storie di musica nelle storie degli uomini che quelle musiche le hanno scritte e donate all’umanità, ma di cosa significasse per lui quella piccola preziosa forma di società ideale fatta di eguali al di là dei ruoli diversi. Bosso chiama i “suoi” musicisti per nome, li guarda negli occhi, li contagia col sorriso e quella società ideale si compie pienamente nello spazio annullato tra il direttore e gli orchestrali.
E allora l’eco delle sue parole che sono state anche il saluto degli orchestrali nei giorni dell’isolamento che hanno preceduto la scomparsa del direttore d’orchestra, sono il miglior passaggio di testimone che si possa immaginare: “ Sono in ogni nota che ho curato / Esisto in ogni nota insieme / Alle mie sorelle e fratelli /Figli o nipoti /Sono ogni nota studiata / Suonata e donata /Amata / perché non c’è nota che non ami/ E che non abbia amato/ Sono rinato/ Nota dopo nota /Una nota alla volta/ Fino ad abbracciarle tutte/ Mi mancate/ Quel sorriso che mi date / È dura/ Il corpo non distratto dalle vostre note /Cura e terapia /E in ogni nota che sto curando / Preparando, studiando /Ci siete /In ogni nota /E saremo /Ogni nota”.
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