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Elsa Morante

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Il desiderio di essere accolti nello sguardo di Elsa Morante ha attraversato la storia del nostro Paese. La poetessa italiana Patrizia Cavalli a proposito della sua scrittura ha detto: «Vedevo in lei un genere di sguardo che avrei voluto si posasse su di me. Avrei voluto essere guardata come lei guardava i suoi personaggi». Uno sguardo che è un grembo accogliente e feroce, come quello di una lupa, dal quale si sono nutriti alcuni dei maggiori intellettuali italiani: Fofi, La Capria, Sofri, Saba, Pasolini solo per dirne alcuni. Un grembo ancora oggi molto conteso dagli stessi scrittori e scrittrici italiane, attribuendogli una specie di luogo di provenienza.

Non si può essere orfani di Elsa Morante. Abbiamo a che fare con una vera e propria Madre Natura del romanzo italiano dal dopoguerra in poi.

Lo sguardo saettante è stato infallibile come la sua prosa a raggi X, a cui non sfugge niente. Il segreto di tanta infallibilità ce lo svela lei stessa, nell’incipit di una sua bellissima poesia, Alibi: “Solo chi ama conosce”.

L’autrice di Menzogna e sortilegio (il suo primo romanzo pubblicato da Einaudi nel 1948) voleva sconfiggere la menzogna del mondo compiendo una sorta di sortilegio, battendosi contro l’ipocrisia, mostrando la verità nelle sue storie.

La sua storia è quella di una maga e strega, di una fata e angelo.

“Raramente ci si guarda, con se stessi, negli occhi, e pare che in certi casi questo valga per un esercizio estremo. Dicono che, immergendosi allo specchio nei propri occhi – con attenzione cruciale e al tempo stesso con abbandono – si arrivi a distinguere finalmente in fondo alla pupilla l’ultimo Altro, anzi l’unico e vero Sestesso, il centro di ogni esistenza e della nostra, insomma quel punto che avrebbe nome Dio. Invece, nello stagno acquoso dei miei occhi, io non ho scorto altro che la piccola ombra diluita (quasi naufraga) di quel solito niño tardivo che vegeta segregato dentro di me. Sempre il medesimo, con la sua domanda d’amore ormai scaduta e inservibile, ma ostinata fino all’indecenza”.

Nata a Roma, nell’agosto del 1912, nel popolare quartiere di Testaccio, da una maestra modenese ebrea, Irma, e un impiegato siciliano, Francesco Lo Monaco: un amico di famiglia che, per lei e i suoi fratelli, ebbe solo il ruolo di padre biologico. Elsa crebbe con Augusto Morante, marito della madre, che accettò di allevare figli non diretti in quanto, non ci è dato sapere i motivi con estrema certezza, non biologicamente attivo. Dopo il liceo, Elsa va via di casa per studiare Lettere e comincia a collaborare con “Il Corriere dei Piccoli” e altre testate romane. Scrive racconti, fiabe, usa l’immaginazione come forma di interpretazione del mondo.

Il suo esordio avviene ufficialmente con una raccolta di racconti (Il gioco segreto, Garzanti, 1942), seguita da un libro per ragazzi (Caterì dalla trecciolina,Einaudi, 1942). Ma è soltanto in seguito al suo primo romanzo che Elsa Morante diventa Elsa Morante: uno scrittore fuori da ogni regola. Lei amava essere definita al maschile ritenendo che la scrittura scavalca il genere sessuale.

Il suo romanzo più noto, La Storia (1974 Einaudi) vende 600.000 copie in poco tempo. Elsa è felice e fiera per aver scritto, finalmente e senza remore, un romanzo anche per gli analfabeti, mostrando così sprezzo per la classe intellettuale chiusa in se stessa con cui spesso si trovava a disagio: “Una delle possibili definizioni giuste di scrittore per me sarebbe addirittura la seguente: un uomo a cui sta a cuore tutto quanto accade, fuorché la letteratura”.

Una classe intellettuale a cui Elsa appartiene di buon diritto fin dal 1936 quando conosce Alberto Moravia che sposerà nel 1941.

Dopo le tragiche vicissitudini della Seconda guerra mondiale e la persecuzione fascista subita dal marito, che li portò a rifugiarsi in Ciociaria, il loro matrimonio si stabilizza nel tormento. Diventa un amore plasmato dalla letteratura e che ha prodotto letteratura. Una lunga relazione sentimentale e professionale che Elsa, dopo la sua fine, commenterà così: «Le coppie di letterati sono una peste».

Ce li immaginiamo in effetti, ognuno nella propria stanza, aggrovigliati nelle proprie storie e isterie, confrontarsi quasi con invidia sprezzante, giocando a fare a gara a chi scrive meglio.

Elsa ci teneva a sottolineare che suo marito era il signor Morante e non viceversa. Mica poco. In una lettera alla moglie, Moravia scrive: “Cara Elsa, io ti amo ancora tanto, che basta una tua parola sgarbata per farmi soffrire. Purtroppo c’è in te come un demone che ti spinge a dirmi sempre delle cose spiacevoli. Perché non sarebbe possibile cambiare tutto ciò?”.

Due caratteri così autentici non possono che rendersi insopportabili l’uno all’altra. La mancanza di pregiudizi e la grandezza delle loro personalità, afflitte da picchi di genialità come da sbalzi umorali, li porta a separarsi dopo 26 anni, nel 1961, senza però mai procedere al divorzio.

Elsa Morante ha consegnato alla scrittura la massima esperienza della sua vita.

Nel 1957 con L’isola di Arturo, raggiunge un successo di lettori e di pubblico che la rende la prima italiana a vincere il premio Strega, una vittoria immortalata da una foto di Elsa a Villa Giulia, davanti alla lavagna, che la rende un’icona. Il romanzo segna la definitiva consacrazione della scrittrice che dichiarò: “La sola ragione che ho avuta (di cui fossi consapevole) nel mettermi a raccontare la vita di Arturo, è stata (non rida) il mio antico e inguaribile desiderio di essere un ragazzo”.

A parte Moravia, ebbe due relazioni: una con il regista Luchino Visconti e poi con il pittore americano Billo Morrow, terminata a bruciapelo dopo il suicidio di lui.

Dopo il clamoroso successo de La Storia le venne l’idea di un romanzo interrotto dal titolo Superman – Un’autobiografia, il cui manoscritto è oggi conservato presso la Biblioteca Nazionale di Roma. Non sappiamo cosa contenga ma non possiamo fare a meno di sentire la potenza narrativa dell’idea di identificarsi con un supereroe dalla doppia vita ma da una unica solida morale.

L’ultima parte della sua vita viene seguita con eccessivo ardore dalla stampa italiana. Un articolo del 1984, successivo al tentato suicidio della scrittrice, comincia così: “Non è più smemorata e sta meglio, sempre meglio”. La salute di Elsa diventa un affare nazionale e lei una regina madre da accudire. Gli amici intellettuali si preoccupano per lei, non vogliono abbandonarla, infondendo di amore e gratitudine ogni giorno della sua vita, ormai gravemente afflitta “Il guaio è che Elsa è paralizzata, e quindi non è autosufficiente”.

Morirà nel 1985, a Roma, di infarto dopo atroci sofferenze per i problemi alle ossa. L’immagine spavalda del Premio Strega, che ancora oggi fa il giro del mondo, è ormai sbiadita. Negli ultimi anni Elsa è una donna sola, fiaccata dal dolore fisico eppure tenacemente legata alla ricerca dell’innocenza. Un’innocenza che attribuirà totalmente ai gatti, suoi fedeli compagni. Felina nello sguardo e nei modi, già dai tempi di Menzogna e sortilegio, si proclama devota alla razza felina con “Canto per il gatto Alvaro” che chiude il libro: “Si ripiega la memoria ombrosa d’ogni domanda io voglio riposarmi./ L’allegria d’averti amico basta al cuore. E di mie fole e stragi /coi tuoi baci, coi tuoi dolci lamenti,/ tu mi consoli,/ o gatto mio!”


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Francesco Ridolfi

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