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“San Giuseppe” (1620-1630) di Gian Battista Caracciolo, detto il Battistello

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Quella di Maria è una maternità divina. Theotòkos, in greco, significa Madre di Dio. Un titolo la cui verità teologica è stabilita dal Concilio di Efeso, nel 431. E che generazioni e generazioni di cristiani, a diverse latitudini, nei secoli, sin dalla più tenera età, hanno ribadito e continuano a ribadire in una delle più conosciute preghiere: l’Ave Maria (ricordate: “…Santa Maria, Madre di Dio…”?). È Madre di Dio perché ne ha generato il Figlio, Gesù, vero uomo e vero Dio. Quella di Giuseppe è, invece, una paternità pienamente umana. Giuseppe è il padre di Gesù, nell’umanità della carne. Per la fede non è il padre biologico: com’è noto, Colei che è stata concepita senza peccato originale, Maria, ha concepito verginalmente il figlio Gesù (il dogma dell’immacolato concepimento di Maria deve essere tenuto distinto dal dogma del concepimento verginale di Gesù).

Eppure, Giuseppe, è padre nel senso più profondo del termine. Lo è umanamente parlando. E tutto ciò rende la sua testimonianza ancora più sfidante. Ci toglie ogni alibi: se è riuscito lui, Giuseppe, ad amare nella carne corrotta dal peccato originale, al pari delle nostre stesse carni, perché non lo possiamo fare anche noi? Perché non possiamo anche noi essere padri alla maniera di Giuseppe, con una donazione completa, aperta, libera? Sia chiaro: non è una paternità superflua quella di Giuseppe. È vero: Maria per diventare la Madre di Dio non ha avuto necessità di un uomo; o meglio, di “conoscere uomo” come dicono le Scritture. Ma, per essere madre di uomo, per fare la madre nella vita di tutti i giorni, Maria trova nel marito Giuseppe sostegno e supporto. Una paternità può esserci come, per diversi motivi, non esserci, lo sappiamo bene. Molte donne lo sanno ancora meglio. E, anzi, in una paternità rinnegata, drammaticamente rinnegata, si celano spesso forme di sopraffazione e di violenza di genere.

Tanto che quando Olympe de Gouges nel 1791 scrive la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” interpreta la libertà di opinione alla luce di una specifica esigenza femminile: che le donne non abbiano di che vergognarsi nel rivendicare il diritto di vedere attribuita la paternità a figli nati fuori dal matrimonio (ahinoi, due anni dopo Olympe finirà ghigliottinata, nel bel mezzo della Rivoluzione francese che mette al centro l’uomo, meglio se maschio, borghese, bianco). Ma quando la paternità c’è, quando la paternità è vissuta, sperimentata, consumata nell’amore, questa non è, e non può mai essere, un di più.

Non è insomma una paternità accessoria, quella di Giuseppe. Essa assume un ruolo centrale nella storia della salvezza, al punto da esaltare la dimensione umana di Gesù, anche nel rapporto con Maria. Giuseppe è un uomo che rispetta la donna, le donne. Quando viene a conoscenza della gravidanza di Maria si preoccupa, in un primo tempo, di cosa comporterebbe un ripudio pubblico per la sua promessa sposa. Anche nel momento in cui potrebbe lasciare Maria in balìa del suo destino, ha cura di lei. E alla fine, comunque, ha fiducia nelle emozioni che avverte, nei sentimenti che prova, nella voce del cuore (in quella dell’angelo, leggiamo nelle Scritture). Si affida all’amore. Accetta di essere padre.

La paternità di Giuseppe permette di liberarci da stereotipi, equivoci e preconcetti che destrutturano il ruolo del padre per presentarlo quale paradigma di modelli sociali deformati e deformanti, non a caso definiti “patriarcali”. In tali concezioni il padre è pater familias, cioè padrone, al quale devono essere sottomessi la moglie, i figli, gli schiavi e (eventualmente) le nuore.

La paternità coincide con la capacità generativa, secondo l’assioma che riduce la mascolinità a virilità, biologicamente intesa. Mentre nella paternità di Giuseppe non vi è nulla di tutto ciò. Egli non si sente padrone della famiglia. È consapevole che quando il figlio Gesù, adolescente, gli dice di doversi occupare delle “cose del Padre mio”, quel “Padre” non è lui. Persino in quell’occasione, Giuseppe rimane pienamente padre. Cade l’ultimo tabù, probabilmente il più granitico, sulla paternità: essa non è questione di generatività o di biologia. È semplicemente questione di amore. Non ci sono padri naturali e padri adottivi. Ci sono padri e basta, senza aggettivi.

Per la Chiesa cattolica il 2021 è l’anno “giuseppino”, secondo quanto deciso da Papa Francesco. Chissà che non sia l’occasione per purificare la mascolinità e la paternità dai numerosi residui “patriarcali” che le contamino. Alla scuola di Giuseppe, padre per eccellenza, impariamo che si è maschi e padri, in senso proprio, soltanto nella verità di relazioni vissute con amore e rispetto. E così in questo 19 marzo, nella festa di San Giuseppe, l’augurio è che i padri, tutti i padri, acquisiscano finalmente consapevolezza di ciò. Solo così sarà una buona festa dei papà, per davvero.


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