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Il david di Michelangelo

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La cultura non deve essere strategica, ma vissuta con desiderio. L’arte si gode, non si fruisce. Il linguaggio burocratico e commerciale impoverisce la bellezza.

Ricordo che, nell’occasione di un anniversario leopardiano, nelle terre di Leopardi, ero stato invitato a tenere una “lectio magistralis”, espressione corretta ma che non amo, perché in genere annuncia stupidaggini proferite da una cattedra. Prima di me, un rappresentante della Regione, anche colto, di lungo corso, introducendo le celebrazioni per il poeta recanatese, invocò un “piano strategico per la cultura!”. Avrei taciuto il mio disagio e il mio sdegno, non fosse che una tale espressione avrebbe causato a Giacomo Leopardi – così sensibile alla lingua italiana, poeta nel nome del quale tutti eravamo convocati – una irritazione persino superiore alla mia. Così non ho potuto e saputo tacere, prendendo la parola.

INCOMPATIBILITÀ TRA LA CULTURA E LA RETORICA DEL “PIANO STRATEGICO”

E non posso tacerlo a maggior ragione ora, che, anni dopo quella turbolenta assemblea, sento la stessa formula tetra “piano strategico per la cultura”, moltiplicarsi come in una serie interminabile di specchi. Echi di echi di un orrore sonoro. “Strategia” è un termine militare, una cosa utile a un profitto o un guadagno, territoriale, o economico. La cultura non ha bisogno di nessun piano, tanto meno strategico. La cultura è dentro di noi, è un desiderio, un istinto, è come un atto erotico. Cancelliamo dunque “strategico” e, già che ci siamo, evitiamo anche l’accostamento delle parole “piano” e “strategico”, giacché evocare un piano che non sia neppure strategico, sarebbe idiota. Sarebbe invece interessante, lo ammetto, un “piano non strategico per la cultura”, ma solo se a elaborarlo fossero menti come Carmelo Bene, Enrico Ghezzi, Geminello Alvi, o irregolari di questa schiatta.

L’ARTE NON SI FRUISCE, SI GODE

E già che siamo entrati in questa furibonda lotta non iconoclasta, ma onomatoclasta, bandiamo il verbo “fruire”, per la cultura, che non si sa neanche come declinarlo. Da un tempo indefinito, abbiamo smesso di “godere” delle opere d’arte, della bellezza di un paesaggio, di un borgo ben conservato, e abbiamo iniziato a “fruirne”.

Io conosco la misura e la dismisura del godimento, non conosco invece letizia nella fruizione. E’ per questo che non amiamo il nostro patrimonio artistico e il nostro paesaggio, perché pensiamo di doverne fruire. Del piacere erotico si gode, e sarebbe triste il solo fruirne. E l’arte, lo si ricordava prima, quella nelle chiese come quella nei musei, è qualcosa di prossimo al desiderio carnale. Si dirà che la radice latina di fruire significa godimento. Che Dante, nel Paradiso, Canto XIX, così meravigliosamente esordisce: “Parea dinanzi a me con l’ali aperte la bella image che nel dolce frui liete facevan l’anime conserte;  parea ciascuna rubinetto in cui raggio di sole ardesse sì acceso, che ne’ miei occhi rifrangesse lui”.

IL DECLINO DELLA LINGUA

Ma ci sarà pure un motivo se i nostri padri non riconobbero dignità costituente alla parola fruizione, bensì alla parola “godimento”.Non “fruiamo”, dunque, ma “godiamo”. Godete, godete! E’ il godimento quello per cui la bellezza esiste, non la fruizione. A meno che, fruendo, non citiate quei versi del Paradiso di Dante. C’è un solo luogo dove la fruizione è opportuna, e questo luogo vi verrà incontro sotto forma di “location”. Accade spesso, ti invitano in un luogo, in un teatro, in un palazzo, in una torre, in una rocca, in una piazza e ti dicono: “E’ una bellissima location”, che è quasi peggio di “Piano strategico”. Quel luogo lo si potrebbe chiamare “teatro”, “palazzo”, “torre”, “rocca”, “ piazza”, e invece no, diventa una astratta location. Neppure “luogo”, che sarebbe un termine basico, ma ancora accettabile, ma “location”, l’abisso dell’impersonale e indeterminato. 

L’EREDITA’ DI NUCCIO ORDINE NELLA CULTURA

Ecco, quando stai in una “location”, non puoi “godere”, ma “fruire”. E meritatamente. E la chiusura di questa mia invettiva la dedico a un amico, scomparso troppo prematuramente, che condivideva questa battaglia di civiltà e passione per la precisione meravigliosa della nostra lingua, Nuccio Ordine. Anche lui, intellettuale, editore, professore di letteratura italiana all’Università di Cosenza, tradotto e amato in tutto il mondo, inorridiva per l’uso di certe espressioni, come “crediti formativi”, nel contesto della scuola. Cioè un linguaggio commerciale per dire qualcosa che riguarda la conoscenza.

Nel momento in cui si dovrebbe dare ai ragazzi il respiro della libertà, della critica, li si imbriglia anzitempo in un mondo di compravendita dell’immateriale. E allora chiudo citando Ordine, cui si deve uno straordinario piccolo libro, ora riedito da La nave di Teseo, “L’utilità dell’inutile”: “Una cosa è certa, se lasceremo morire il gratuito, se ascolteremo unicamente questo mortifero canto che ci spinge a rincorrere il guadagno, saremo solo in grado di produrre una collettività malata e smemorata che finirà per perdere il senso  della vita”.

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