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Ogni estate ha i suoi furori, che irrompono nei riti d’una gioia collettiva, quasi una nuova felicità, consumata nella fuga fuori dalle città, dal quotidiano, dalla routine, e dalla solitudine.

In ogni estate italiana, e anche in questa torrida e desertificante, si fugge soprattutto dal silenzio, ma da un silenzio che nessuno più conosce o riconosce, dal silenzio imbarazzante della difficoltà di stare soli con se stessi, inabili ad ascoltare il rumore della mente.

È un silenzio sempre più raro fra borghi selvaggi, e anse irraggiungibili, mentre ci insegue il rumore del mondo, quel rumore “di fuori”, quel rumore di suoni e di immagini, che penetra nella mente e nel corpo, quel rumore di base che sembra essere diventato colonna sonora del film della nostra esistenza, recitato fra intrusioni, interferenze, promiscuità più o meno insensate, altoparlanti, connessioni e motivi ripetitivi.

La grande febbre del rumore scivola come inarrestabile blob sui lungomare, sulle riviere, nelle soste dei viaggi, fino ai boschi e agli oceani: un rumore fatto di decibel sparati senza ritegno, giacché i nuovi padroni del mondo ritengono così di generare attenzione e dare gioia ai propri clienti. Dopotutto, l’inferno è garantito: l’invasione costante dei decibel eccessivi di musica-rumore attanaglia ogni cosa, annienta le migliaia di poveretti che pensavano di rifugiarsi nella propria casetta in cerca di tranquillità e anche di una serena, dinamica gioia di vivere.

Al posto della beata prospettiva si ritrovano schiavi di giorno e di notte di esaltanti tormentoni. Il fatto è che non solo il silenzio è ucciso definitivamente, ma è morta in tutto questo la gioia di ritrovarsi e ritrovare gli altri, e il miraggio della parola, della confidenza, dello stare davvero insieme, di tacere o di fare all’amore. Ovunque il serpente invadente ti insegue e ti annienta, nella realtà e nella virtualità. Alcuni anni fa uscì un libro di David Le Breton dal titolo semplice: Sul silenzio. Fuggire dal rumore del mondo, che ipotizzava la fuga verso il silenzio, perché il mondo si consuma nel grande rumore invasivo e inquinante della specie.

E se, invece di fuggire, riconquistassimo un po’ di silenzio, e anche un po’ di musica, parole, letture, ritmi, di un tempo che ci dà la percezione di noi stessi in un insieme di tante opportunità? Perché cancellare tutto con un colpo di spugna, beandoci sul lettino d’un costoso lido irradiante musica arrogante, incollati alla rete? o fra le mille sonerie, e canzoni e canzonette fra gli ombrelloni della spiaggia libera? o fra i megafoni che atterriscono anche i boschi e i deserti? Siamo un’umanità ammalata di rumore, e la cura sarebbe molto ardua oggi: io non la conosco. Né la conosceva un grande poeta, Andrea Zanzotto, che tragicamente nel suo libro Conglomerati, così conclude: «Sì parola, sì silenzio: infine assenzio».


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