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Raffaele La Capria

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Da quella prima volta in cui ci siamo visti, l’ho osservato a lungo, in situazioni diverse. Gli ho visto passare sul volto espressioni di gioia intensa o di ironia maliziosa. Ho osservato il suo sguardo inabissarsi e scomparire, perduto in qualche suo passato.

Per quante ore e giorni abbia trascorso a discorrere con lui della sua vita e di letteratura, che a volte mi sono parse essere la stessa cosa; per quanto mi sia ritrovata a dirgli di me cose che mai avrei detto ad un altro, figurarsi a uno dei maestri della letteratura; per quanto avessi letto ogni suo libro scritto o riscritto, mi sembra tutt’ora di sapere tutto di lui e di non conoscerlo affatto. Di parlarne e scriverne senza poter dire niente.

“Mi sembra di non conoscerla per nulla.” Gli avevo detto, allora. “Mi scusi?”, aveva risposto lui.

Questa conversazione si è svolta qualche mese dopo l’uscita del nostro libro, La vita salvata, in cui ripercorrevamo in conversazioni tutto quello che era stato di lui negli anni, ossia quello che di una vita rimane dopo averne raccontato, la sola cosa che merita di essere salvata, come direbbe lui. Avevo passato settimane a rispondere alle domande su di lui e più rispondevo più mi sembrava di allontanarmi da chi era stato nell’arco della sua esistenza, ma anche da chi era nelle giornate passate insieme in quella stanza di casa sua, con le quattro pareti interamente ricoperte di libri e il gatto Nemo che gli girava intorno ai piedi.

C’è il Raffaele La Capria che ho conosciuto di persona, il La Capria che ha scritto, in epoche diverse, i molti e fondamentali libri che tutti abbiamo letto, il La Capria che ha vissuto in anni in cui io non ero neanche un’ipotesi e il La Capria che nasce dalla mia scrittura e dal nostro incontro. Sono infinitamente diversi tra loro e, a volte mi è parso, inconciliabili. Ho avuto paura, quel giorno, che uno di loro fosse quello reale, il che avrebbe implicato che tutti gli altri fossero falsi.

Lui mi aveva guardato in viso e poi negli occhi, come si concedeva poche volte nel corso delle nostre conversazioni, quasi che temesse l’invadenza del suo sguardo. Il mio primo impulso era sempre di ritrarmi, come quando viene puntata in faccia una luce troppo forte, ci tengo alle mie ombre e le custodisco gelosamente, ma volta per volta ho imparato a lasciare andare, è una cosa che mi ha insegnato lui. Lui lo chiama “abbandono attivo” e significa abbandonarsi alle correnti della realtà, ai movimenti silenziosi e tellurici dell’esistenza, senza resistervi, ma mantenendo costantemente vigili le proprie sensibilità e percezione. Mi sono lasciata guardare.

“Quando avevo la sua età” – mi aveva detto alla fine – Mi sentivo irreale perché tutto era irreale intorno a me. E, viceversa, dubitavo dell’esistenza delle cose, delle persone e dei sentimenti, dubitavo della loro reale natura perché dubitavo di me, del mio effettivo essere-nel-mondo.”

Il nostro primo incontro. Lui è Raffaele La Capria, nato a Napoli nel 1922, uno degli autori che ha fatto la letteratura del 900 italiano, premio strega nel 1961 con Ferito a Morte, le sue Opere raccolte in due volumi nei Meridiani Mondadori, scrittore amato dai lettori in quel particolare modo che avvolge la sua persona e la sua opera in un tutto inscindibile che si alimenta dell’uno e dell’altra. Io sono solo io. È abbandonato sulla sua poltrona rossa, Nemo, una massa grigia, liscia e calda, accomodato in grembo, le gambe elegantemente incrociate, il bastone appoggiato al muro accanto a lui. Io sono in piedi, in mezzo alla stanza.

È la prima volta per me per tutto, di entrare nella casa, piena di foto, premi e ricordi, di un grande scrittore, di scrivere un libro di conversazioni, di parlare a lungo con uno sconosciuto. Sono là e tutta quella inadeguatezza delle prime volte è lì in piedi con me. Non sapevo allora come dovessi apparirgli simile a uno dei molti sé che era stato e che, nel profondo e a volte, era tutt’ora.

Nel suo primo libro, Un giorno d’impazienza, pubblicato quando aveva la mia età, il protagonista, come la narrazione, si avvolge su se stesso nel corso di un’unica giornata che dovrebbe cambiargli la vita, segnare il passaggio da una giovinezza abbozzata alla compiuta, concreta realtà adulta, ma nonostante tutti gli eventi di iniziazione che egli si costringe a cercare e vivere, quella giornata campale, alla sua scadenza, si rivela una giornata come le altre, uno ieri e un domani identici a tutti quelli che erano stati e che saranno. La vita, “questa traversata, in cui non accade nulla di speciale, il cielo è sempre azzurro e fermo, non c’è nessun moto nell’aria, ma qualcosa accade mentre non ce ne accorgiamo, perché la nostra vita è così, è quello che ci accade mentre siamo occupati in altre faccende”, scriverà anni dopo, ormai adulto, in Introduzione a me stesso.

“Non le dirò che le sembra di non conoscermi perché lei è giovane e io ho vissuto a lungo prima di lei. Certo la giovinezza è una faccenda complessa, non creda a chi dice il contrario. Ma creda a chi le dice che non differisce molto dall’età adulta, né tanto meno, le assicuro, dalla vecchiaia. Dovrà convivere negli anni con una continua e ininterrotta interrogazione su di sé e affronterà dei momenti in cui apparirà a se stessa come una sconosciuta e tutto quello che ha fatto e pensato e amato nel corso della vita come fosse stato fatto, pensato e amato da qualcun altro. Perché non dovrebbe accadere anche con qualunque altra persona che si crede di conoscere?”

Ferito a morte è il libro di molte generazioni. Quel senso di riconoscimento che si prova leggendolo, qualunque sia la latitudine o l’epoca in cui si è nati e vissuti, è dato dal fatto che esso riproduce nell’essenza la giovinezza di ciascuno, nei suoi mutamenti e nelle sue indolenze, negli scatti d’ira e negli stati di grazia, nel senso di svelamento e comprensione come di incertezza e smarrimento e perdita. E lo fa da quel punto, ancora molto vicino all’infanzia, a partire dal quale vivremo nel rimpianto e nella ricerca della Bella giornata, dell’Età dell’oro che tutti viviamo e perdiamo nell’arco di pochi cruciali anni dell’esistenza.

“Come si fa, allora? – gli avevo chiesto, come facevo nelle nostre vecchie conversazioni in cui volevo che mi rivelasse i segreti della scrittura e della vita. – A cosa ci si aggrappa se tutto intorno e dentro è incertezza e irrealtà?”

“Mi dispiace molto, non ho la risposta. – aveva detto e la sua voce aveva il tono che gli conoscevo, stanco e sincero – Posso dirle però quello che ho cercato di fare io. Ho cercato di restare umano di fronte a ogni cosa, di salvare la mia propria umanità, il ricordo dei libri che ho letto, della bellezza che ho visto, dei sentimenti che ho provato, aspettando.”

“Aspettando cosa?”

“Di consegnare la mia esperienza a chi verrà dopo.”


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