Johann Peter Krafft, Faust on Easter Morning (1856)
4 minuti per la lettura“Filosofia ho studiato, diritto e medicina, e purtroppo teologia, da capo a fondo, con ogni sforzo.[…] ”.
Queste sono le parole attraverso le quali si presenta Faust, indicando la sua volontà di cercare di conoscere i misteri della universo. È una necessità dell’uomo, e induce credere a forze superiori che ci mettono in collegamento con qualcosa che è sopra di noi. Per questo c’è una relazione fra mondo magico e religione.
Osserva James Frazer, ne “Il ramo d’oro”, come si possano conciliare, accostare e sovrapporre la magia e la religione, o per lo meno quanto della sfera magica venga poi ripreso, simbolicamente e non, nei riti religiosi relativi a fasi di sviluppo successive; e indica l’esercizio dei poteri magici sui fenomeni atmosferici da controllare, la pioggia, il vento, la siccità, l’alternanza delle stagioni, le fasi della luna, il cammino quotidiano e periodico del sole.
Ed è singolare che i fenomeni di magia calino con l’allontanamento dalla religione, la sua distanza dalla vita quotidiana dei cittadini, il cui strumento è la preghiera.
Chi prega oggi? La magia è un ponte fra fede e ragione. Conserva lo stupore, l’emozione. È una scorciatoia per il soprannaturale.
Chi sono i maghi oggi? E come esercita un mago? Come si manifesta? Oggi non ne incontriamo neanche nella versione parodistica, legata al gioco, all’illusionismo, al di là dei poteri paranormali. La credibilità del mago è diminuita.
È uscita dalle urgenze sociali, e, tanto più, spirituali. è intrattenimento.
Anche i più noti si allontanano.
Ha quindici anni più di me, e quindi nella mia infanzia c’era.
È l’ultimo, da proteggere e conservare con affetto. Poi è finita. È il mago Silvan, a confermare le virtù magiche del quale basterebbe la fama che lo accompagna.
Ragazzo era e ragazzo rimane.
In molte occasioni, ripartendo da Trento verso la valle dei Laghi, tra un cavalcavia e un tunnel (il cosiddetto bus de Vela), il mio occhio era attratto da una singolare villa di apparenza neoclassica, che avrei desiderato visitare. Nessun dubbio che fosse da tutti conosciuta, ma da nessuno visitata. Alla mia richiesta di informazioni mi rispondevano: è Villa Salvotti, proprietà di un architetto, persona originale e difficile da avvicinare.
Così, ogni volta che arrivavo a Trento, restava la curiosità, ma non l’opportunità, di una visita. Poco più di un anno fa, divenuto Presidente del Mart, feci chiedere all’architetto Lupo un appuntamento con lo scontroso collega di famiglia aristocratica, per andare a vedere la scenografica architettura, ancora non sapendo della bella esposizione che il Mart gli avrebbe dedicato.
Arrivando in una giornata invernale , fredda, con aria di neve, non potevo immaginare di incontrare un uomo di irrefrenabile simpatia, e vivace ironia, elegante e pittoresco insieme, con un basco nero di traverso come un architetto del primo Novecento. E non solo simpatico ma anche cordiale, deferente e simpatizzante (non sempre mi accade) anche per le mie posizioni più radicali.
Si manifestò subito lusingato della mia visita. Io gli ricordai il mio desiderio di vedere la sua casa, tanto più con i suoi arditi interventi paesaggistici; ma nulla fece per parlarmi della importante e riparatrice mostra che, con Margherita de Pilati, stava preparando con i disegni, i progetti, i cimeli riemersi dal grande disordine della sua vastissima casa, alle sue sole mani affidata. Capivo che in lui c’era del genio e nessuna ostentazione, nessun compiacimento.
L’arredo costituito di oggetti e mobili prevalentemente ottocenteschi era pervicacemente, se non colpevolmente, trascurato; la testa di lui, antica, era sveglia, la mente lucidissima e il sorriso spontaneo. Mi illustrò tutte le migliorie, anche ardite, nel giardino della casa, per perseguire geometrie e simmetrie, capricciose e visionarie. Nonostante l’arredo prevalentemente neoclassico, Salvotti non è nostalgico, o conservatore; piuttosto è, con largo anticipo, post moderno. Mai razionalista.
D’altra parte non è un problema: Salvotti non è, e non è mai stato, un passatista, nonostante la polvere sulle suppellettili, ma un modernista dotato di coscienza storica.
La sua posizione è chiara: “Ho messo insieme uno stile che definirei plasticismo nazionale. Invece di mettere in evidenza la strutture, l’ acciaio, il cemento armato, ho cominciato a comporre i miei progetti con forme che erano esclusivamente figurative e, grazie a una committenza privata che mi vedeva bene ho potuto costruire diversi edifici.
E così, tra gli anni Sessanta e Settanta, ho portato il Postmoderno a Trento, il che in sostanza significa riferirsi alle architetture del passato”.
La “Strada Novissima”, voluta da Paolo Portoghesi nel 1980 per la Biennale veneziana di architettura, segnò l’affermazione internazionale del Postmoderno. A distanza di quarant’anni, possiamo considerare Salvotti un precursore.
Come scrive Roberto Festi , “Salvotti è un ‘poeta del segno’ che, con il disincanto e il coraggio dei suoi progetti (‘osteggiati e quasi mai accettati dalla pubblica amministrazione’), irrompe in una realtà come quella trentina, da sempre poco incline ad accettare novità, mutamenti troppo radicali o stravaganze”.
Ordine e libertà, disciplina e innovazione: questo è il pensiero di Salvotti, che vive perennemente altrove. Nel suo sogno, in una realtà trasfigurata, nel desiderio di correggere gli errori del presente.
Una ininterrotta utopia.
Applicato al gioco con impeccabile serietà ed eleganza. L’ho visto sempre in televisione, e sembrava appartenere a un altro mondo, come tutti quelli che vedi dietro lo schermo, come molti hanno visto me, credo.
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