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Illustrazione di Roberto Melis

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Yasushi Inoue è uno scrittore giapponese purtroppo poco conosciuto e non molto tradotto nel nostro Paese. Nelle pagine di un suo breve racconto (“Anniversario di matrimonio”) si trova – credo io – una delle più vivide, spietate e poetiche descrizioni dell’avarizia mai scritte. Due coniugi avari, in seguito alla modesta vincita ad una lotteria, decidono di utilizzare la metà del denaro vinto per “recuperare” il viaggio di nozze mai fatto: una notte in un albergo lussuoso (ma comunque “conveniente”) in una non lontana località di mare, che metterebbe anche a tacere – sostiene la moglie – vicini e famigliari che sparlano della loro “parsimonia”.

Partono.

Ma il breve viaggio si trasformerà in un impietoso confronto con la loro natura di avari. Appena varcata la soglia della stanza prenotata, lei fa: “A me sembra da stupidi, avendo avuto questa fortuna, buttarla via così per una notte in albergo”.

In breve, i due decidono di riprendere l’autobus e tornare verso Tokyo, fermandosi in una cittadina a metà strada in qualche alberghetto grazioso ed economico, con le terme. Ma sull’autobus lui ci ripensa e propone di dormire in riva al lago, così si risparmia e poi… “con un posto così bello, non abbiamo bisogno di terme”. Ma arrivati alla stazione degli autobus si accorgono che di lì a poco sarebbe partito l’ultimo autobus per Tokyo. “Il pensiero che, se lo avessero preso, avrebbero potuto tornare a Tokyo quella sera stessa gli balenò in un angolo della mente, poi subito lo sentì espandersi, come un banco di nubi che si diffonde rapido nel cielo”.

“E se invece tornassimo a Tokyo?” propose lui, in fondo non resterebbe che cenare e dormire. Ormai si era convinto che perdere stupidamente diverse banconote solo per una cena fosse da veri imbecilli. “In fondo hai ragione, possiamo anche tornare”, disse lei.

L’avarizia è questo. Un continuo tormento che ti impedisce di vivere pienamente il presente. Gli avari sono creature pre-infernali, inesorabilmente vaganti nella landa desolata dell’insoddisfazione, della paura, della perdita di ciò a cui sono patologicamente attaccati.

L’avarizia è un vizio sui generis. Gli altri vizi capitali sono per lo più contenuti nei limiti dell’anatomo-fisiologia umana che, per quanto innalzati con “aiutini” chimici nella società della performance e della medicalizzazione, rappresentano tuttavia degli argini. Non si può mangiare, fare sesso, dormire, esibirsi o adirarsi … ininterrottamente.

L’avaro può invece praticare il suo vizio continuamente, anche quando fa altro, anche quando pensa ad altro. Ogni sua scelta e ogni suo pensiero sono contaminati dall’attaccamento alle sue cose (difetto nel dare) e/o dall’ossessione di prendere ed accumularne sempre di più (eccesso nel prendere).

È un’incapacità di dare, quella dell’avaro, che coinvolge tutto: denaro, tempo, cose, carezze, sguardi. Figure macchiettistiche e patetiche con queste caratteristiche – tirchi, spilorci à la Molière – popolano il teatro, il cinema, la letteratura… e alcuni restano memorabili per protervia e goffaggine, con annessi risvolti comici. Ma spesso sfugge, invece, la dimensione tragica dell’avaro. Gli altri vizi sono in qualche modo “vitalistici”, per certi versi seduttivi, attraenti, con un loro fascino estetico, e soprattutto esprimono piacere, per quanto morboso; l’avarizia è un vizio cupo, angosciante, desertificante. Nell’esercitarlo l’avaro non prova piacere, anzi l’avarizia finisce per insidiare, decostruire e infine annichilire qualsiasi slancio, qualsiasi passione e interesse, qualsiasi godimento. In ogni azione dell’avaro si si insinua il tarlo del denaro che lo sta abbandonando e che gli impedisce di godere di ciò che sta pagando. La sua vita è una costante sofferenza, senza spiragli di luce, un tormento senza gioia. Non è certo un caso se la visione buddista della vita vede nell’attaccamento alle cose una primaria sorgente di sofferenza, la causa di una miseria esperienziale ed esistenziale.

C’è un altro tratto di differenza tra l’avarizia e gli altri vizi capitali. Quasi tutti sono funzionali al meccanismo capitalistico, che se n’è anzi impossessato con la consueta e agghiacciante efficienza; l’avarizia no. Lussuria, gola, invidia… tutti vizi che costano, che implicano consumo, spesa, che fanno “girare l’economia” insomma; mentre l’avarizia rallenta, inceppa, depotenzia il vortice di induzione di bisogni e spese voluttuarie e insoddisfazioni e vane illusioni, la cui flessione – come abbiamo ormai imparato – condanna le nostre economie a catastrofiche spirali discendenti. Siamo dilaniati tra l’inevitabile insoddisfazione consustanziale alla vanità dell’iperconsumismo esasperato e la tragedia dell’insoddisfazione connaturata all’attaccamento al proprio denaro.

La verità è che l’equilibrio è difficile, la via di mezzo è sempre più ardua. Il mondo è sempre più un mondo di eccessi e difetti, di differenze, di disuguaglianze esagerate, disturbanti.

La pandemia è foriera di introspezioni e meditazioni, individuali e collettive. Intervenendo a gamba tesa sugli stili di vita e sulle relazioni, ci impone in qualche modo di guardare alle nostre vite da una posizione di parziale straniamento e di surreale sospensione.

Esiste una relazione tra coronavirus e avarizia. Per certi versi, il contesto covidico è il paradiso dell’avaro: la possibilità – una volta tanto – di trarre un piacere dalla propria avarizia, non contaminato dal senso di colpa derivante dalla scelta deliberata di non fare le cose. Non viaggiare, non comprare, non andare a cena fuori… non sono più opzioni ma imposizioni. L’avaro non ha più bisogno di mentire a se stesso auto-narrandosi la propria tirchieria come morigerata parsimonia, può finalmente sentirsi “normale”. Sospetto che molti spilorci siano, più o meno consapevolmente, segretamente felici di questo stato di cose per il quale il parziale blocco dell’esistenza, che per loro è consueto, è divenuto la regola generale. Il mondo freezato della pandemia è il loro mondo, il loro habitat naturale che la società normale gli rinfaccia e che la società malata, non solo gli consente ma, con loro sommo sollievo, gli impone.

Disse Epicuro che “niente basta a quell’uomo per il quale ciò che basta sembra poco”.

È necessario che molti di noi traggano da questo tempo pandemico materia per ripensare priorità e rivalutare presunte necessità, ricalibrare comportamenti, così da rallentare – una volta riavviata la vita – il gorgo che ci ingoia. Sono dure le privazioni che viviamo in questo momento – della vicinanza fisica agli altri, delle abitudini, delle passioni … – ma nel contempo forse utili a fare un piccolo esercizio di felicità, cercando nel meno ciò che basta.


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